domenica 5 marzo 2017

Chi ha paura della Svezia?

Svezia, dietro le fake news di Trump e i luoghi comuni che girano da mezzo secolo c’è l’odio dei liberisti contro la socialdemocrazia. Un articolo di una regista italiana Monica Mazzitelli, 
svedese d’elezione.

Monica Mazzitelli
In questi giorni la Svezia è di attualità dopo che Donald Trump ha riportato come veritiere alcune dichiarazioni rilasciate a Fox News da un certo Nils Bildt, un mitomane svedese che ha spacciato come notizie la propaganda contro immigrazione e Islam condotta dal partito “Sverigedemokraterna” (Democratici Svedesi), una formazione politica nata come ricettacolo di gruppi neonazisti e di ispirazione nazionalista, molto simile alla nostra Lega Nord. Il Ministero degli Esteri svedese Margot Wallström ha deciso di ribattere pubblicando un significativo ed esaustivo comunicato stampa in inglese: “Facts about migration and crime in Sweden” dove demolisce alcune delle più diffuse false opinioni/notizie attualmente in circolazione, sulla base di fatti e statistiche rilevate attraverso canali ufficiali, in primo luogo quelle delle Forze di Polizia.

Margot Wallström
Alcuni stralci tra i più sintetici e significativi: “Nonostante il fatto che il numero di immigrati in Svezia sia aumentato a partire dagli anni ‘90, i cittadini vittime di crimini violenti è diminuito.”
E sugli stupri: “Il numero di stupri denunciati in Svezia è aumentato. Ma l’accezione del termine si è ampliata nel corso del tempo, il che rende […] fuorviante il confronto dei dati con altri paesi, dato che molti atti considerati stupro dalla giurisprudenza svedese non sono considerati tali in molti altri Paesi. Per esempio se una donna in Svezia denuncia di essere stata violentata dal marito ogni sera per un anno, ciascun atto viene considerato in modo distinto, e quindi si calcolerebbero 365 reati. Nella maggioranza degli altri paesi ciò sarebbe registrato come reato unico, o non sarebbe neanche considerato un reato.” Se tutte le donne italiane avessero l’asta della tolleranza così vicina allo zero, e considerassero “stupro” una strusciata di un uomo su un autobus (atto che ricade nella definizione di stupro in Svezia), è probabile che la percentuale di donne che hanno subito violenza sessuale in Italia sarebbe vicina al 90%.
E anche sulla questione relativa a crimine in equazione a immigrazione, il documento pone l’attenzione sul fatto che ci sia un pregiudizio percettivo che porta a ritenere gli stranieri ipso facto più sospetti dei nativi svedesi, ma che nell’analisi della criminalità l’accento vada invece posto sulle condizioni socioeconomiche di ciascuna persona.
Il problema è che adesso, nonostante le scuse di Fox News rispetto a Nils Bildt, rimarrà sempre questa macula indefinita sulla Svezia come: “il paese dove ci sono tra i più alti stupri in Europa, a opera di islamici”. E non sarebbe che un sequel di una vecchia menzogna messa già in giro il 27 giugno del 1960 dal presidente americano Eisenhower a proposito dell’alto numero di suicidi in Svezia. In un discorso il presidente dichiarò che il “paternalismo” del socialismo svedese portava a una perdita di ambizione personale, e che questa assenza di lotta portava a un alto numero di suicidi, il doppio di quelli degli Statu Uniti. Questa affermazione, falsa già allora, nel tempo è divenuta “la Svezia ha il più alto tasso di suicidi al mondo”. L’obiettivo di Eisenhower era politico, voleva screditare il paese che stava dimostrando la più positiva esperienza di socialismo e riforme socioeconomiche del mondo pur riuscendo a mantenere tanto la proprietà privata e l’affermazione individuale nella professione quanto la giustizia sociale e sindacale. E non perché Eisenhower avesse qualcosa contro la nazione in sé, ovviamente, ma perché un modello di Stato di questo tipo non poteva che essere un ostacolo nella costruzione di una narrazione anticomunista. Mentre era da un lato facile gettare fango e odio sull’Unione Sovietica e la sua mancata libertà (oltre che liberalismo), ciò era molto più complesso guardando la mite, ricca, ordinata e socialmente equilibrata Svezia, dove padroni e classi operaie si parlavano da granitiche certezze sindacali e politiche, e dove la chiave di ogni spartito erano le parole: “equità e giustizia”.
Paradossalmente, questo stigma della Svezia come nazione “infelice” nonostante ricchezza e socialismo permane a quasi 60 anni di distanza, e ancora oggi non solo gli statunitensi e il resto del mondo, ma persino gli svedesi stessi continuano in parte a riportare questo mistificatorio cliché dandolo per vero, nonostante la Svezia si trovi solo al 35esimo posto nella graduatoria mondiale dei suicidi, e sia in costante discesa. Per capire come ciò possa succedere può essere utile evidenziare − come nota antropologico-culturale − che fu proprio da un episodio capitato in Svezia nel 1973 che nacque la teorizzazione della cosiddetta “Sindrome di Stoccolma”, il meccanismo psicologico che porta a sviluppare un sentimento favorevole nei confronti del proprio persecutore. L’aneddoto è interessante ma troppo lungo per questo articolo, volendo è riportato su Wikipedia.
Purtroppo un’altra bordata contro questo paese l’ha recentemente tirata l’italo-svedese Erik Gandini con il suo a dir poco mistificatorio documentario “La teoria svedese dell’amore”, dove accozza una serie di informazioni per voler dimostrare un supposto individualismo svedese. Forzando prospicienza tra concetti diversi quali “autonomia” e “abbandono”, “individualità” e “individualismo”, Gandini cerca di demolire lo stato sociale svedese creato a partire dagli anni ’60 dal socialdemocratico Olof Palme, uno dei più illuminati Presidenti del Consiglio della storia. Palme sognava uno Stato capace di provvedere ai bisogni non solo minimi (che basterebbe) ma anche superiori di ogni essere umano, uno Stato che fosse in grado di offrire a ciascuno una possibilità di realizzare sé stesso, a prescindere da sesso, età, situazione sociale e familiare, censo. E ci è riuscito: in Svezia oggi tutti hanno accesso allo studio fino all’università, la parità di genere è un fatto (LGBTQIA compresi), la protezione dei cittadini qualcosa che si può dare per scontata. E tutto questo nonostante un governo a matrice moderata che ha detenuto il potere fino a tre anni fa abbia effettuato tagli estremamente consistenti allo stato sociale, riducendo a livelli molto bassi la Sanità Pubblica. Non è un caso che Trump abbia oggi chiamato in causa la Svezia, dopo che Barak Obama l’aveva a più riprese indicata come modello durante la sua presidenza: la Svezia è una spina nel fianco di chi non ce l’ha, parafrasando un noto statista,e sicuramente la sua amministrazione pubblica eccelsa, la distribuzione delle risorse, la bassissima criminalità, la vivibilità alle stelle, la disoccupazione quasi inesistente e il sostegno alla cultura in ogni sua forma, non possono che suscitare un livore invidioso in chi si trova a combattere con servizi pubblici inesistenti e precarietà di ogni tipo, dalla casa al lavoro. Inoltre, la Svezia è tra i paesi più generosi come politica di immigrazione e asilo, con investimenti consistenti (sia materiali che politici) per l’integrazione. E mantiene nonostante questo un Bilancio dello Stato in positivo, che si ipotizza resti tale fino al 2020.
Ma nel suo documentario Gandini tenta di costruire una “teoria” per affermare che il sostegno che questo sistema sociale offre a ciascuno per diventare autonomo e libero di scegliere la sua vita, porti alla fine le persone a diventare individualiste. Un po’ una declinazione simile a quella di Eisenhower, per cui la mancanza di ostacoli offerta dal socialismo rendeva gli uomini poco combattivi e quindi più proni al suicidio. Premesso che l’idea che il socialismo possa generare individualismo è un paradosso filosofico di per sé, nel suo documentario Gandini è costretto a compiere una continua forzatura semantica del linguaggio nella sua narrazione, prendendo a esempio situazioni di rilevanza marginale o nulla, come chessò la sparuta comunità di persone che vivono nei boschi a fare più o meno sesso di gruppo. A voler trarre le conclusioni dalla critica di Gandini alla società svedese, sembra che lui propugni una società infine patriarcale, e pare vagheggiare un’organizzazione familistica volemose bene e i bambini coi nonni e i nonni a carico, ché questo Stato svedese che assiste alla fine ti rende egoista. E qui credo venga compiuto l’errore di valutazione più macroscopico: non è affatto vero che gli svedesi non reputino importante il benessere del prossimo ma il contrario. Semplicemente, però, gli svedesi non vogliono doversi occupare del prossimo di persona e preferiscono sostenere l’onere fiscale necessario a realizzare politiche che consentano a tutti inclusione e benessere: dai servizi sociali alla cultura dell’accessibilità di tutto a tutti. Gli svedesi vivono male e tollerano con difficoltà gli stati di povertà, abbandono, caos e disuguaglianza. Per ragioni anche caratteriali legate al senso della dignità personale, della propria privacy e timidezza, gli svedesi non amano né trovarsi nella situazione di dover dare di persona, né in quella di ricevere. È un popolo freddino ed emotivamente controllato, ed è per questo che pretende uno Stato che funzioni: il benessere e la risoluzione dei problemi non devono essere a carico del singolo o della famiglia, del volontariato, della chiesa, della carità pelosa, ma devono essere un diritto garantito.
Ma il documentario di Gandini piace all’estero e soprattutto all’Italia perché siamo contenti di pensare che in questa “nazione modello” sia invece tutto così triste sul piano delle relazioni umane, che ci sia solitudine, disperazione e suicidio. Una Svezia vincente fa paura a tutti. Ci serve denigrarla per sopportare la nostra vita strangolata, il crimine organizzato e lo Stato nel caos, la corruzione, il femminicidio, la prostituzione tollerata, gli anziani abbandonati, la disoccupazione, le pensioni minime a 500 Euro, l’evasione fiscale, l’inquinamento alle stelle, eccetera, eccetera.
E senza mai chiedersi se possa essere una scelta consapevole e voluta quella di vivere (e quindi anche morire) da soli, Gandini narra tutta quella immensa solitudine come fosse un prodotto della Socialdemocrazia. Io che sono come Gandini svedese di elezione (e in più anche regista) vivo la mistificazione del suo documentario come imbarazzante, e se lo conoscessi gli suggerirei di tornare a vivere a Brescia, dove il suo spirito neoliberista potrebbe trovare maggiore compagnia, piuttosto che restare in un Paese che non apprezza.
La Svezia non è per tutti, è una nazione che va meritata.
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Sono andato, tornato, ripartito.

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E così ora sono qui, in un’altra fase della Vita. Abito vicino al ponte Västerbron, a forma di arpa. E’ bellissimo. La mia gratitudine è a scoppio molto ritardato. Faccio in tempo a dimenticare gli atti, i nomi e i volti prima di aver capito quando dovessi ad ognuno.