mercoledì 30 maggio 2012

Vivere fino in fondo.





Ogni orizzonte vissuto spalanca un` orizzonte
più grande, più vasto,
dal quale non c’e'  scampo
se non vivendo.

 (Henry Miller)






martedì 29 maggio 2012

"Abbiamo perduto l’innocenza"



Riecco Lars Kepler. Sempre più nero, più feroce, più rabbioso di sempre per la gioia dei tre milioni e passa di lettori che nel mondo seguono con trepidazione le investigazioni spesso poco ortodosse e poco scientifiche dell’ispettore capo della polizia di Stoccolma Joona Linna alle prese con omicidi efferati, spesso al limite del paranormale.

È così anche in quest’ultimissimo La testimone del fuoco (Editore Longanesi, pagg. 594, euro 18,60) dove la vittima è una quattordicenne ritrovata nella sua camera presso la casa di recupero per ragazze in difficoltà, nei dintorni di Stoccolma. Neanche dirlo le pareti sono schizzate di sangue, le lenzuola ne sono intrise.

Nessun testimone a parte una delle ragazze che è misteriosamente fuggita nella notte. E, a parte una certa Flora che dice di aver visto la ragazza e l’arma del delitto, quella che nessuno riesce a trovare. Ma nessuno le crede perché Flora, al momento dell’omicidio, era a centinaia di chilometri di distanza. Eppure lei ha visto. Già, perché lei è una medium. Insomma, gli elementi ci sono tutti per un altro successo stellare dopo L’ipnotista (2010) e L’esecutore (2011), tutti usciti da Longanesi.

Mi ero occupato di Lars Kepler (il nome è lo pseudonimo dietro cui si cela una coppia di serissimi scrittori, saggisti e drammaturghi – Alexandra Coelho Ahndoril e Alexander Ahndoril – riciclatisi giallisti, o meglio noir-isti) all’epoca dell’uscita di L’ipnotista. La domanda che si poneva allora era se la civilissima Svezia fosse il paradiso che tutti credevamo o l’inferno che, a partire da Stieg Larsson e la sua trilogia Millennium (portata in Italia dall’editore Marsilio), abbiamo cominciato a scoprire: racconto di un mondo affollato di neonazisti, servizi segreti deviati, corruzione, serial killer e un’eroina, Lisbeth Salander, tutta computer, web e violenza. A dar retta all’ondata di violenza che da Stoccolma, da allora, è arrivata sui banchi delle nostre librerie, altro che inferno.
Ehi, ma la Svezia non era quel Paese di sogno un po’ staccato dal mondo, scrivevo, splendidamente isolato, giardino dell’eden della libertà sessuale, dove la gente era alta, bella e bionda, tutto funzionava, la morale era tenuta a bada da una rigorosa etica protestante e la povertà non esisteva?

Il fatto è che la globalizzazione ha prodotto spaccature e tensioni persino nello splendido isolamento della tollerante Svezia, esasperando le inquietudini e creando contrasti sociali che spesso esplodono in violenze di strada e violenze private, nel chiuso delle famiglie che, come il vapore compresso in una pentola a pressione, deve uscire in qualche modo, pena l’esplosione. E tutto questo ha finito per riflettersi nel cinema, nella musica, nella letteratura.
All’epoca di Larsson facevo notare come, a pensarci bene, questa ondata di “gialli smörgåsbord” sta alla Svezia come gli “spaghetti western” stavano all’Italia: violenti e smodati i nostri western; barocchi e traboccanti i loro noir, proprio come lo sono i tipici buffet svedesi (smörgåsbord, appunto), ricolmi di eccessi gastronomici di ogni tipo.

Al pari degli “spaghetti western”, i noir svedesi, sono stati dapprima una ventata di novità, di geniale invenzione. All’inizio, negli anni Sessanta,  fu la coppia Maj Sjöwall e Per Wahlöö, con il loro ispettore Martin Beck, a sollevare interesse per la narrativa poliziesca nordica, poi fu il turno di Henning Mankell e del suo commissario Wallander. Investigatori che, comunque, si muovono entro le regole del poliziesco, con una novità: la denuncia sociale. A parte la novità, per noi mediterranei, dell’esotica ambientazione scandinava, dei nomi improbabili (Joona Linna è un uomo o una donna?) e dalla pronuncia difficile (Tuvefjäll).

È comunque Stieg Larsson, con il successo stellare della sua trilogia Millennium, a definire la nuova identità del giallo scandinavo, a creare la ricetta del successo conemporaneo. Dice Pirkko Peltonen, giornalista e scrittrice finlandese che da anni vive in Italia e con cui avevo parlato allora: «Questa nouvelle vague del giallo è un fenomeno ampio che investe non solo la Svezia, ma tutti i paesi scandinavi, dalla Finlandia alla Norvegia, dalla Danimarca all’Islanda. Il racconto poliziesco è un format che permette di raccontare la modernità, affermare la verità con passione. Sì, perché a differenza di quanto generalmente si crede, gli scandinavi sono profondamente passionali. Ardore che si ritrova soprattutto nei romanzi di Larsson e che talvolta può trasformarsi purtroppo in violenza. Lì da noi c’è infatti l’annoso problema della violenza familiare che spesso si nasconde alla vista, che scorre come un fiume carsico nelle vite di molti. Se fa attenzione, questo si percepisce anche nei film apparentemente pacati di Ingmar Bergman dove si cela invece una violenza repressa. Si pensi al personaggio del pastore fanatico e inflessibile, il patrigno di Fanny e Alexander del film omonimo. Da una parte c’è la sua maschera publica, rigida e austera, dall’altra il volto privato, preda di attacchi d’ira incontrollata».

E dire che già negli anni Sessanta un improbabile Alberto Sordi, pur con i suoi modi scanzonati, aveva buttato un sasso nello stagno delle certezze e degli stereotipi con il film Il diavolo, del 1963, girato a Stoccolma, vincitore dell’Orso d’Oro al festival di Berlino.
Certo non un capolavoro (anche se, poi, Sordi vinse con questo film un Golden Globe), non un’analisi sociologica, ma realistico quel tanto da spingere un attento osservatore come lo scrittore e regista Mario Soldati a chiamare gli svedesi «ipocriti». Il film, annotava Soldati, è «una potente, spietata demistificazione della Svezia».
 Ma il mito è più forte di qualsiasi osservazione critica. Soprattutto da noi, qui a sud delle Alpi. Nemmeno l’impunito omicidio del primo ministro svedese Olof Palme, nel 1986, aveva scalfito la nostra idea di Svezia. I tentacoli di quell’indagine arrivarono persino a sfiorare pesantemente il nostrano mondo piduista (poi la pista, apparentemente, si sgonfiò) .
Fino all’arrivo di Stieg Larsson, appunto, con le sue riflessioni a tinte fosche sui malesseri della società, e fino all’arrivo dei suoi epigoni. Fatto sta che dopo Larsson è stata una corsa sfrenata a salire sul carro milionario del noir svedese che si è venduto praticamente a scatola chiusa, anche se da qualche tempo il filone aurifero – a parte per alcuni autori di rango come Kepler, appunto – si sta un po’ raffreddando (anche perché comincia a scarseggiare la materia prima che è stata saccheggiata abbondantemente).
Ma come si riesce a creare a tavolino un “dopo-Larsson” che sia possibilmente un best-seller? Con l’eccesso naturalmente. Il marketing insegna. La saga dei vampiri insegna. E l’eccesso, nel mondo del noir, sta nel numero di morti, nella dose di violenza e di sangue.

Non è un quindi caso che, per esempio in L’ipnotista di Kepler (di cui si annuncia la versione cinematografica in uscita a ottobre 2012, diretta da Lasse Hallström – quello di Chocolat e Le regole della casa del sidro), già nelle prime pagine, le vittime erano “pestate a sangue, prese a calci, picchiate, accoltellate”; una bambina veniva segata in due: “la parte del busto e le gambe erano sulla poltrona davanti alla televisione”; un uomo veniva ripetutamente pugnalato fino ad amputargli un braccio e “il petto era così lacerato da sembrare una scodella piena di poltiglia sanguinolenta”. Appunto, proprio come nei nostri “spaghetti western”, stracolmi di rivoltellate, di morti raccontate con un sadico rallentatore, dove più si sparava e moriva, più si vendevano biglietti.

Così, messa in naftalina l’immagine di una società trasparente, pacifista, solidale, ecco comparire nella narrativa scandinava psicopatici affetti da patologie ai limiti del credibile. E se è vero che «non siamo proprio a Chicago», come ribadisce un personaggio di The Indian bride della regina del crimine norvegese Karin Fossum, ma è certo che, per dirla con un poeta, accademico di Svezia, Torgny Lindgren: «Oggi c’è nostalgia per un Paese, la Svezia, che non c’è più. È come se il male del mondo ci avesse raggiunto. Abbiamo perduto l’innocenza e nessuno ce la può rendere».
di Claudio Castellacci.(al coniglo agile)


domenica 27 maggio 2012

I Nuovi Svedesi. (De Nya Svenskarna).

Se ieri sera se qualcuno mi avesse detto che sarei riuscito a guardare tutto l`Eurofestival mi sarei messo a ridere.Invece ci sono riuscito e mi è piaciuto parecchio.Grazie anche ad una regia perfetta i tempi tra una canzone e l’altra sono stati molto veloci accompagnati da effetti_luce molto belli, al contrario di san Remo dove il sermone di un`ora fatto ai”poveri”italiani del profeta Celentano costrinse la giuria a far ripetere tutto nella seconda serata.(si erano dimenticati anche i nomi dei cantanti…).
Nina Zilli

Nina Zilli, mi è piaciuta tantissimo e non solo come cantante, (segno che non tutto è  perduto…). 
Il tifo l´ho fatto per Loreen e la sua Euphoria, il motivo dovrebbe esse lo stesso per il quale tifo Zlatan Ibrahimovic  anche quando indossa la ”odiata” maglia rossonera.

Insomma mi sono divertito, anche se c`erano canzoni veramente terribili che alla fine però diventavano accettabili grazie alle bellissime coreografie. Tutto questo è kitsch? 
Allora voglio essere anch’io un pò kitsch.
 (vagabondo)
 

Correva l`anno di grazia 1965

Correva l`anno di grazia 1965 e aimè...!! Avevo vent`anni quando incominciai a conoscere l’Europa grazie alla mia 500 e per più di trentan` anni continuai a viaggare in Europa in auto (non più con la 500...), E già... 1965. Addio merletti ingialliti sui poggiatesta degli schienali di II° classe, carezze di molle a fior di pelle, addio. Addio daghe di legno scricchiolanti dei sedili di III° classe, reticelle sfondate dei ripiani portabagagli. Addio vecchia littorina delle: "4:50 -Civitavecchia-Roma Tuscolana." Nessun addio invece per la mai conosciuta I° classe.

Io oramai viaggiavo in 500 in una Italia che si stava rimettendo in piedi con ritmi e modi diversi, Sud, Centro, Nord. Vivevo con sempre nuove emozioni anno dopo anno la trasformazione della rete stradale italiana, conobbi prima la A1, poi la A14, tante altre sigle ancora. Un retrospettivo sguardo a volo d’uccello sulle tappe di quei percorsi di viaggio rivela tanti fili di ideali raccordi, tracciati in tanti secoli di storia dell’Europa dai movimenti della cultura, dalle personalità che l’hanno vivificata. Quei fili che collegano luoghi lontanissimi l’uno dall’altro, genti fra loro sconosciute, sono i percorsi che uniscono Helsingör in Danimarca con il suo castello popolato dai regali fantasmi creati dalla fantasia shakespeariana (lui che non si era mai mosso da casa...) alla sua piccola Stratford in Inghilterra. E poi, Copenaghen il Museo di Thorvaldsen, lo scultore danese innamoratosi a Roma dell’arte del Canova. Per chi aveva l’età giusta c’era anche l’Europa delle fiabe da scoprire, dalle atmosfere cupe dei Fratelli Grimm, con Pollicino e Hansel e Gretel persi nel fitto della Selva Nera.
Alla partenza dalla maremma il paesaggio troppo noto mi appariva noioso, monotoni i campi infiniti di grano, scontate erano le distese argentate di chiome d’ulivo che si allargavano alla vista attraverso la nebbiolina dorata alta sulla rossa terra umida. Dovevano passare anni per capire la ricchezza di quel paesaggio. Appena uscito dalle terre Etrusche su, su, sempre più su, quella Italia ancora sconoscita di cui pochissimi avevano notizia una volta superata Roma : "targa SI…? Siena ? Siena ? Dove ? Ah… la Toscana !"
Ripenso con nostalgia a quella nostra Italia ancora da ricostruire, con le Statali strette o non asfaltate, qualche cartello sbilenco per le indicazioni e pietre miliari ai bordi per sapere dove eravamo e dove andavamo. I lavori stradali erano gestiti da uno sparuto drappello di operai abbrustoliti dal sole, in testa il fazzoletto inumidito fermato dalle quattro cocche che consegnavano un impolverato straccio rosso all’automobile capocolonna da restituire al termine del tratto dei lavori in corso. Le Statali alpine, le salite con i tornanti a gomito che facevano irrigidire, immobili, guardando giù lo strapiombo mentre si incrociava un camion, il fondo stradale privato dell’asfalto dal ghiaccio dell’inverno. 
Questo era il Gottardo da valicare non senza problemi. Ancora niente Autogrill, un uovo sodo, qualche biscotto per smorzare la fame prima della sosta per la colazione al sacco, l’happening più atteso non per quello che si mangiava, ma per il modo in cui si mangiava e il luogo in cui si mangiava. Arrivai a conoscere le pesche del Trentino, mai viste le pesche gialle dalla buccia vellutata, poi l’incredibile varietà di formaggini che mi offriva la Germania, al pepe, alla paprika, al gusto di wurstel mangiati in riva al Reno. Indimenticabile l’enorme flanfromage acquistato a Kaiserslautern, barattoloni comprati in Svizzera da cui rotolavano enormi fragole immerse in un delizioso sciroppo (marca Hero’s, indimenticabili). Guidare,guidare fino su in Svezia sgusciando fra tanti camion, vecchi e arrugginiti.. 
La Svizzera era le prima meta. Casette di legno con i coloratissimi balconi, fragranti nell’aria e profumate come di miele le piante di campanule che le rallegravano. Poi quei cartelli infilati sulle facciate, inizialmente incomprensibili : “Zimmer”, “Zimmerfrei”, “Gasthof”. Mi rassegnai all’assenza di imposte alle finestre, anche gli incredibili piumini, praticamente enormi cuscini da poggiare sul corpo, non mi facilitavano il risveglio mattutino rallegrato però da colazioni mai viste, teiere, teierine, coppette, panetti fragranti, panna, burro, grasso latte dal gusto a noi sconosciuto, profumate marmellate, un lunghissimo caffè l’unico neo. Piú tardi a pranzo inutile era leggere il menu, "nudelsuppe" una zuppa davvero nuda e triste, priva di tutto, anche dei cerchietti di grasso di un brodo di dado, poi kartoffeln, kartoffeln e poi sempre kartoffeln, qualche volta wurstel, sempre nell’odore avvolgente dei crauti. Mi salvavano le apfeltorten, le impareggiabili torte alle mele, rara la sachertorte. La Svizzera poi l’avrei attravesata quasi ogni anno. Tutto ordinato e pulito sempre e dovunque, l’immagine-tipo della Svizzera non si smentiva mai. Era un Paese che non aveva conosciuto la guerra, quella che aveva lasciato miseria e rovine, così era andata avanti, tanto avanti da poter offrire lavoro a tanti meridionali, ne incontravo dappertutto, c’era nostalgia nei loro volti, nel loro approccio, ma non la sofferenza di quelli incontrati in altri Paesi d’Europa. Nel viaggio di ritorno in Italia la tradizione imponeva di infilare una stecca di sigarette nella valigia, anche se io non fumavo, e poi marmellate e cioccolato e il pieno di benzina prima di raggiungere Chiasso. Alla dogana sempre batticuore per quei miei peccati!
Sull’autobahn tedesca. Fu un impatto sconcertante con quel nastro che correva dritto e monotono attraverso la Foresta Nera, mentre un implacabile rullio ritmico che favoriva il sonno ti martellava. Qui però doganieri esigenti,sospettosi, bagagli,carta verde, passaporto sempre meticolosamente esaminati da tanti occhi e tante mani. Poi finalmente nei Paesi del Nord anni ‘60, fari delle modernità del tempo: cucine svedesi, fòrmica, nudo design, linee avveniristiche nell’architettura erano le lezioni dei Maestri nordici. A Copenaghen omaggio alla dolce sinuosa Sirenetta ma anche al monumento alla Pescivendola, dura e tozza, a Odense la casa di Andersen quasi uscita da una fiaba, con la sua brava cicogna (vera!) in cima al comignolo.
La Svezia era al di là di un braccio di mare. Foresta, distese di laghi in lontananza, poi Jönköping, Lindköping, Norrköping, sembrava di rimanere sempre allo stesso punto, suoni simili e rarefatti panorami sempre uguali. Ma arrivò l’impatto inaspettato e sconvolgente con le infrastrutture della periferia di Stoccolma, la mia bella autostrada del Sole ne era lontana anni luce: svincoli a “otto”, diramazioni sopraelevate, rotatorie, ponti e… indicazioni in svedese, per me un infinito cieco labirinto che mi sconvolse. 
Ma l’organizzazione dell’accoglienza fu insuperabile. Con rassegnazione accettai di nutrirmi di poco costosi, smörgåssar le grosse tartine farcite di tutto e di più, di che cosa che non seppi mai.E mio malgrado non lo sò nemmeno oggi. Una sera una scoperta:
Un candido camioncino, un omino dal candido cappellino e un morbido caldo panino farcito con un fragrante wurstel arrostito: mai assaggiata una simile golosità in terra mediterranea, avevo scoperto “korv med bröd”. Conobbi lo choc del sabato sera di Stoccolma, una via di mezzo fra la movida notturna di una città di oggi e un’ubriacatura collettiva che accomunava giovani, maturi professionisti, impiegati.
Qui mi fermo perchè "purtroppo" della Svezia mi innamorai…ma questa è un altra storia. Ve la racconterò un altra volta.
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Sono andato, tornato, ripartito.

Sono andato, tornato, ripartito.
E così ora sono qui, in un’altra fase della Vita. Abito vicino al ponte Västerbron, a forma di arpa. E’ bellissimo. La mia gratitudine è a scoppio molto ritardato. Faccio in tempo a dimenticare gli atti, i nomi e i volti prima di aver capito quando dovessi ad ognuno.