martedì 14 gennaio 2014

Un pomeriggio in ospedale.

Oggi  pomeriggio sono andato in ospedale, che sensazione bizzarra aggirarmi tra quei corridoi caldi e eternamente uguali. La percezione però rimane sempre la stessa: la stranezza di sentirmi oppresso, rinchiuso, ai limiti del claustrofobico. Gli ospedali mi hanno sempre fatto questo effetto. Non ci hanno forse insegnato che sono i luoghi in cui la gente guarisce e dove quindi si presuma tu possa ritrovare una certa pace? Quando poi ci entri capisci quanto sia effettivamente il ricettacolo della devastazione umana, di qualcosa che distrugge i nostri corpi non più macchine perfette.
Una novità c’è eccome, ora per fare l’accettazione c’è un terminale che ti dice dove andare, molto utile mi dico. Ma quel sollievo per un sistema che progredisce è interrotto dal pianto di una ragazzina seduta all’angolo della sala. Cosa le avranno detto? Cosa le attende il futuro? avrà un angelo accanto a se per sostenerla? Mi accomodo davanti alla stanza 24 e attendo che facciano il mio nome. 

Una donna e sua figlia sono adirate, dopo tutto avevano appuntamento alle 12,10 e ora sono già le 12,20. Tra quei corridoi troppo carichi di luce artificiale e troppo poveri di luce naturale si aggirano sedie a rotelle in una ricerca continua di un’uscita e semplici esseri umani confusi. Provo a isolare i miei pensieri, cosa mi diranno tra poco? Ma perché improvvisamente tutti vogliono parlare con me o mi fissano? Una donna in camice bianco interrompe la sua corsa e mi fissa. A gran voce si rivolge a me: “oh mi scusi! È che mi ricordava una persona... mi spiace”.Accenno un sorriso e lei riprende la sua corsa. 

Coloro che aspettano con me trovano ogni scusa per parlarmi: l’anziana signora mi guarda con una cartaccia in mano aspettando che le riveli (chissà perché propio io) dove si trovi il cestino mentre l’indiano inizia dal nulla a raccontarmi quale incidente lo ha portato qui in questo esatto momento. Io voglio stare solo con i miei pensieri e gioco a fare lo "svedese...", chiuso, freddo, inpenetrabile e non rispondo... non faccio altro che accennare sorrisi di convenienza. Mi sembra di essere dentro a un grande Truman Show. Ma dove si troverà la telecamera? La visita va peggio del previsto. l`idea di dover iniziare ad iniettarmi insulina da solo mi terrorizza. Ma questo non vi deve importare. Quello che vorrei dirvi è di come abbandonando il centro visite mi sia recato al settimo piano dove c`è un mio amico, ed ex.collega, ricoverato per un intervento al cuore vedo malati che giacciono nei loro letti, in confortevoli camerette, avvolti da un caldo tepore quasi famigliare. Ben due infermiere mi si sono avvicinate cercando di aiutarmi. Le ringrazio cordialmente e dico loro che voglio parlare con la capo sala. (non só perchè ma voglio parlare con la capo sala). C’è chi dorme e chi trasporta qualcosa, chi cammina come se stesse portando sulle spalle le pene del mondo e chi mi osserva chiedendosi “ma questo chi è?”  Trovo il mio amico, che inizia subito a parlare con orgoglio del suo nuovo Pacemaker spiegandomi ogni dettaglio tecnico, ci sediamo in una kaffetteria riservata ai malati c`è un bricco di caffè in caldo ci prepariemo un panino con prosciutto e formaggio il discorso scivola su l`ultima partita di hockey su ghiaccio vinta dalla sua squadra del cuore.
Il mio amico si dimostra molto soddisfatto della prestazione della sua squadra spiegandomi come abbiano fatto a rovesciare a loro vantaggio il risultato finale, dal tono emozionato della sua voce si capisce che è un grande tifiso, io per farlo contento cerco di fare una faccia molto interessata all`argomento, inutile spiegargli per la centesima volta che io di hockey su ghiaccio non ne ho mai capito niente e nemmeno mi interessa.
Perché l’ospedale deve essere così ospitale? così bianco e pulito come le lenzuola appena cambiate? Se ci penso bene quel luogo rispecchia in pieno il mio animo, sono in estrema sintonia con esso e la cosa non è affatto buona.
Buonanotte a tutti.




Attenzione

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Sono andato, tornato, ripartito.

Sono andato, tornato, ripartito.
E così ora sono qui, in un’altra fase della Vita. Abito vicino al ponte Västerbron, a forma di arpa. E’ bellissimo. La mia gratitudine è a scoppio molto ritardato. Faccio in tempo a dimenticare gli atti, i nomi e i volti prima di aver capito quando dovessi ad ognuno.