venerdì 25 gennaio 2019

Paese che vai, usanze che trovi.

Paese che vai, usanze che trovi. Così, se in Italia persino i quattro fiocchi di neve previsti per oggi su Roma si trasformano in una ordinanza della sindaca Raggi per chiudere le scuole, in Svezia accade l'esatto contrario. In Svezia, infatti, il maltempo è semplicemente una ragione in più per accompagnare i piccoli di appena 18 mesi a giocare nei giardini degli asili nido. Per chi non vive a queste altitudini, è un'immagine quantomeno rara. Che diventa a dir poco sorprendente se si pensa che negli asili di Stoccolma è molto facile scorgere, tra gli altri, tanti piccoli di origine africana entusiasti della neve o della pioggia. Al di là dello scenario alquanto suggestivo, la questione, però, è un'altra.
In Svezia l'educazione infantile ha un ruolo centrale nel sistema scolastico nazionale. Tant'è che, nonostante la scuola dell'obbligo cominci a 7 anni, l'80% dei bambini frequenta l'asilo già al compimento del secondo anno di età, se non prima. Una realtà che, fatta eccezione per la Danimarca, non ha eguali nel resto d'Europa. Non è, dunque, un azzardo sostenere che per le autorità svedesi la scuola è qualcosa di più di un semplice luogo di educazione, piuttosto è una vera e propria palestra di democrazia. Perché in una società che diventa sempre più multietnica l'istruzione costituisce il principale volano dell'integrazione degli immigrati. Una scuola di democrazia che non vale soltanto per i piccoli interessati, ma anche per gli stessi genitori. I quali indirettamente sono costretti a confrontarsi con gli usi, i costumi e la cultura del paese ospitante. Peraltro, basta osservare la legislazione del paese scandinavo per capire che non si tratta di una convinzione meramente astratta.
L'ordinamento svedese, infatti, prevede un congedo parentale di 18 mesi, durante i quali è lo Stato a garantire circa l'80% dello stipendio. Alla scadenza, il neonato può già essere iscritto all'asilo, usufruendo del supporto economico diretto e indiretto delle autorità statali. Non solo, quattro anni fa sono state introdotte importanti novità anche per gli adulti di origine straniera presenti sul territorio nazionale,infatti, è stata approvata una legge, che se non ricordo male è entrata in vigore a gli inizi del 2011, che prevede per gli immigrati in possesso di un permesso di un soggiorno la possibilità di frequentare corsi di lingua svedese, educazione civica e perfino stage di lavoro.
L'aspetto interessante, inoltre, è che questi benefit, a differenza di quanto accade abitualmente, non fanno riferimento al nucleo familiare, ma a ogni singolo individuo. Con l'obiettivo di incentivare e coinvolgere anche le donne immigrate. Anche perché i figli, persino in tenera età, sono già molto impegnati. Scelte che confermano ancora una volta non un trend, ma una vera e propria tradizione del paese scandinavo.
Uno stato che ha sempre investito e creduto nell'uguaglianza di genere e nel ruolo fondamentale dell'educazione come mezzo di integrazione per i nuovi arrivati. E se poi fa -20 l`integrazione avviene ancor più rapidamente. 
(fonte: nonno franco a stoccolma)
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venerdì 11 gennaio 2019

Nonno Franco a Stoccolma: COLORI SVEDESI


Nonno Franco a Stoccolma: COLORI SVEDESI: Abbiamo un bel lamentarci noi degli stereotipi che ci appiccicano addosso gli stranieri, in particolar modo propio gli svedesi. Il f...

martedì 8 gennaio 2019

Quando ad affogare in mare eravamo noi

Naufragio del vapore Sirio: "La copertina della "Domenica del Corriere" del 19 agosto 1906, 
disegnata da Achille Beltrame."
Secondo Karl Marx la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Eppure la storia potrebbe essere un’ottima consigliera per evitare di compiere sistematicamente i medesimi errori. A patto di saperla e volerla ascoltare. La storia, per esempio, ci ricorda che fino a qualche decennio fa eravamo noi italiani, poveri e affamati, sulle carrette del mare e in cerca di un approdo. Siamo emigrati per secoli e spesso per le medesime ragioni dei migranti di origine africana e asiatica che tentano di arrivare sulle nostre coste. Come loro, anche noi, nel nostro viaggio verso un mondo nuovo e un futuro migliore, abbiamo vissuto drammi continui, spesso poco o per nulla raccontati, di cui abbiamo perduto la memoria.
La posizione del naufragio del Sirio.
Cominciamo dal lontano marzo del 1891. Un altro secolo, un’altra Italia, un altro mondo. Un bastimento inglese di nome Utopia (in greco significa “in nessun luogo”) partì da Trieste e fece tappa prima a Palermo e poi a Napoli. Nella città campana si riempì la pancia di uomini, donne e bambini. Destinazione le americhe, un mondo nuovo in cui ottenere lavoro, diritti, soldi, dunque la libertà dalla disoccupazione, dalla fame, dalla miseria, dalla dittatura, dalle ingiustizie ingoiate per secoli da generazioni di italiani, spesso operai, braccianti, e dalle loro famiglie. Il bastimento rappresentava la speranza, forse l’ultima, di non morire di fame. La nave salpò da Napoli il 12 marzo del 1891 con 3 passeggeri di prima classe, 3 clandestini, 59 membri dell’equipaggio e ben 813 emigranti, quasi tutti italiani, provenienti dalla Campania, Calabria, Abruzzo. Utopia arrivò davanti la baia di Gibilterra intorno alle 18.00 del 17 marzo del 1891, dopo aver superato Punta Europa. Il tempo era pessimo, la visibilità ridotta, la paura tanta e il viaggio ancora lungo. Il capitano, con quel carico di umanità speranzosa, sbagliò drammaticamente manovra e andò a sbattere contro il rostro di una corazzata inglese alla fonda. Calò a picco in pochi minuti, ingoiata dal mare in tempesta. I morti risulteranno 576. Italiani in prevalenza, morti durante il viaggio della speranza in mare straniero. Uomini e donne come gli eritrei e i tunisini del 3 ottobre. Nessuna differenza, stessa tragedia. Storie che si intrecciano e che dovrebbero farci riflettere. Solo pochi passeggeri riuscirono a salvarsi affrontando il mare agitato sulle insufficienti scialuppe di salvataggio. Una tragedia mai raccontata dal cinema. Forse perché quegli italiani morti dinnanzi alle coste del Portogallo non appartenevano all’alta borghesia inglese, come invece i ricchi passeggeri del Titanic. Quegli italiani erano operai, disoccupati, contadini abituati a mangiare pane e fantasia. Famiglie proletarie con la valigia di cartone e le tasche vuote. Anche all’epoca, il trasporto dei migranti spettava a vere carrette del mare con in media 23 anni di navigazione e una manutenzione che lasciava molto a desiderare. Navi che potevano contenere non più di 700 persone. Ne salivano a bordo invece più di 1.000, stipati alla meglio. Più corpi, più profitto. Poco importava delle condizioni igieniche, delle misure di sicurezza, del benessere di quel carico di braccia. Molti emigranti italiani perivano in quei tragici viaggi. Anche queste condizioni ricordano i viaggi di eritrei, libici, somali, sudanesi, senegalesi per giungere alle porte dell’Europa.
Non è l’unica storia di naufragio che ci riguarda. Il museo nazionale dell’emigrazione italiana di Roma ricostruisce storie e vicende della nostra emigrazione minuziosamente. Visitarlo consente di ricordare una parte fondamentale delle nostra storia e aiuta a superare stereotipi diffusi da una narrativa spesso artefatta e retorica. Oltre alla nave Utopia, ricordo i 549 emigrati, di cui molti italiani, deceduti nel naufragio del Bourgogne avvenuto al largo della Nuova Scozia il 4 luglio del 1898, i 1.198 emigrati, di cui ancora molti italiani, morti nel naufragio dei due Lusitania. Il primo affondò al largo di Terranova il 25 giugno del 1901 e il secondo, invece, affondato da un sottomarino tedesco il 7 maggio del 1915. Ancora, le 550 vittime del naufragio del Sirio, morti nel 1906 dopo avere urtato gli scogli della costa spagnola di Cartagena o i diversi italiani dei 1.523 morti nel naufragio del lussuoso Titanic del 14 aprile 1912. Nel novembre del 1915 morirono 206 italiani del piroscafo Ancona, affondato ad opera di un sottomarino austriaco, e ancora le 314 vittime italiane del naufragio della nave Principessa Mafalda dell’ottobre del 1927, affondato vicino le coste del Brasile e, infine, i 446 italiani dell’Arandora star, colpite mortalmente dai siluri di un sottomarino tedesco il 2 luglio del 1940. Italiani disposti a immensi sacrifici, a subire violenze e a sopportare rischi mortali. Venivamo stivati in terza classe, in condizioni pietose e considerati “tonnellata umana”. Le malattie erano frequenti. A volte partivamo sani e arrivavamo morti, se non gravemente malati. Capita lo stesso ai migranti che cercano di arrivare sulle nostre coste. Partono in buono stato di salute e, se riescono a giungere, sulle nostre coste, arrivano denutriti e a volte malati. Spesso però la scabbia, di cui tanto si è scritto e parlato, la prendono dopo essere stati presi in carico dal nostro sistema di accoglienza. La loro malattia, a volte, è nostra diretta responsabilità. La storia racconta ogni particolare, anche le più vergognose proposte umane. Come quella dell’ex Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, il quale prevedeva la possibilità di sparare ai migranti in mare sulle nostre coste per impedirne, secondo il suo articolato ragionamento padano, lo sbarco.
La famiglia Serafini, di Arzignano, provincia di Vicenza, nella foto scattata pochi giorni prima di imbarcarsi sul Sirio per il Brasile: dietro, da sinistra Isidoro (12 anni), Umberto (14), il capofamiglia Felice (43), la moglie Amalia (41) che era in attesa del nono figlio, Silvio (11). In prima fila Ottavia (7), Silvia (9), Giuseppe (2), Lucia (3) e Ottavio (6). Nel disastro morirono tutti meno Felice, Isidoro e Ottavio.
Anche in questo caso la storia ci racconta di quando noi eravamo il bersaglio, come nel caso della nave Brazzo, che nel 1884, in un viaggio di tre mesi con 1.333 passeggeri a bordo, di cui 20 morti di colera, venne respinta a cannonate a Montevideo, o della Carlo Raggio che nel dicembre del 1888, con 1.851 emigranti italiani a bordo, ebbe 18 vittime per fame. Si deve ancora ricordare la Cachar, partita per il Brasile il 28 dicembre del 1888 con 2.000 emigranti italiani e arrivata a destinazione con 34 vittime per asfissia e altri per fame, la Frisia, anch’essa diretta in Brasile con a bordo 27 italiani morti per asfissia e più di 300 malati gravi e la Remo, partita nel 1893 con 1.500 emigranti italiani e arrivata a destinazione con 96 morti per colera e difterite, respinta dallo Stato del Brasile.
La storia, affermava Enzo Biagi, è una guida alla ricerca dell’uomo. Queste tragedie vissute da noi italiani dovremmo ricordarcele per sviluppare oggi un sistema di accoglienza civile, legale, rispettoso dei diritti umani e delle convenzioni internazionali per tutti i migranti che cercano di attraccare sulle nostre coste. Nessuno escluso. L’accoglienza è la condizione indispensabile per poterci considerare un Paese civile. Lo dobbiamo anche a noi stessi e ai nostri migranti morti in terra o in mare straniero.
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(A cura di Marco Omizzolo per nonno Franco a Stoccolma.)

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Sono andato, tornato, ripartito.

Sono andato, tornato, ripartito.
E così ora sono qui, in un’altra fase della Vita. Abito vicino al ponte Västerbron, a forma di arpa. E’ bellissimo. La mia gratitudine è a scoppio molto ritardato. Faccio in tempo a dimenticare gli atti, i nomi e i volti prima di aver capito quando dovessi ad ognuno.