martedì 25 ottobre 2011

Spazza Tour

Cari  amici lettori dopo aver saputo che i turisti giapponesi si fanno le foto accanto a mucchi di inmondizia come ricordo di Napoli. Voglio proporvi  ancora un post sulla ”monnezza napoletana” che  se non fosse un’immane tragedia, potrebbe anche farci ridere, come nella migliore tradizione del teatro napoletano, qui purtroppo c`è poco da ridere. Napoli è davvero una città sui generis. Quando reputa che alcuni problemi siano irrisolvibili, o si affida a San Gennaro o li «utilizza» per esercitare la propria fantasia. Tutti (soprattutto gli stranieri) applaudono a queste sue invenzioni (la famosa arte di arrangiarsi), ma intanto i problemi restano. Così, invece di armarsi di pale e di scope per rimuovere i cumuli di rifiuti rimovibili (non parlo dei K2 di immondizia; per quelli ci vorrebbero macchinari da fantascienza anni '50) qualcuno si organizza e porta in giro i giapponesi a fotografarli (cosiddetto «Spazza Tour», moderna versione del Grand Tour settecentesco), e i giapponesi sono fuori di se dalla gioia, abbagliando di flash la sporcizia nostrana, quasi fosse una diva del cinema hollywoodiano.
Altri montano presepi fatti con l'immondizia, modellano sculture composte da sacchetti della Nettezza Urbana, allestiscono mostre che hanno per soggetto i rifiuti. E questi sono gli slogan: «La munnezza è il nostro orgoglio. Non lasciarla bruciare. Non fartela fregare. Al Bad Museum la tua munnezza diventa opera d'arte ed avrà più valore perchè… la munnezza sei tu». Provocazione, dicono. Sia pure, ma sa tanto di autocompiacimento. E così è naturale che atterri in città il grande scultore e pittore britannico (Damien Hirst) per vedere quest' «arte» e toccare con mano l'emergenza. E il grande artista britannico, davanti alla monnezza verminosa eruttata dai cassettoni ormai invisibili, vittime della loro stessa debordante sporcizia spinta fino in mezzo alla strada (scorze, gusci di cozze, cortecce di mellone, incartate di cape di alici, conserva, pomodori scamazzati, et coetera et coetera), Domenico Rea si scioglie quasi in lacrime (di gioia) ed eleva il suo inno dadaista, surrealista, pop art (fate voi): «Grande Napoli! Quello che mi piace di più di questa città è la sua sporcizia. Che è lo specchio della società moderna. Napoli è un grande stimolo per gli artisti».
Un tempo il nemico si chiamava Spagnolo, Alemanno, e contro questo nemico la città (o una parte d'essa) si armava: la Storia ha chiamato quei momenti «rivolta di Masaniello» e «Quattro Giornate». Contro i Borbone si levò un gruppo di intellettuali: la plebe era troppo ignorante per capire, e la repubblica finì i suoi (pochi) giorni a piazza Mercato, Grève napoletana, luogo di esecuzioni capitali. Contro i tedeschi, guidato dal colonnello Sholl, furono gli scugnizzi a dar man forte alla popolazione adulta. Ben presto, senza istruttori, impararono come si manovrava una mitragliatrice o un panzerfaust rubato al nemico. Tanti piccoli eroi anonimi. Robert Capa ne immortalò due su tutti: sigaretta Camel alle labbra e fucili più grandi di loro appoggiati alle spalle.
Ora tacciono grandi e piccini. I grandi, per paura (della camorra) e per collusione (con la classe politica, in parte responsabile dello scempio); i piccoli, perchè a loro della munnezza sembra non fregargliene niente: attraversano velocemente i vicoli della città a bordo dei loro roboanti motorini, per farsi ammirare facendo «il cavallo», o per scippare una povera vecchierella.


Al tempo di Bassolino, gran distributore di prebende, ricchi premi e cotillon, nessun intellettuale levò la voce per una sua dimissione, reclamata pure dagli alieni dell'ammasso globulare M3; oggi fanno professione di pessimisti («Ahinoi, così così vanno le cose, c'è ben poco da fare»), o peggio scaricano le colpe sul governo Berlusconi.
E il popolo si è arreso, come davanti a una delle tante inevitabili calamità della sua storia. Da noi, infatti, c'è per un'antica familiarità con la sciagura (terremoti, eruzioni, pestilenze, formazioni di nuove terre, bradisismi eccetera) una pressochè totale sfiducia nelle nostre forze e in quelle dei nostri simili: una resa senza condizioni alla Fatalità. È tipico delle nostre genti, avvistando la malasciorta (la cattiva fortuna) sfiduciarsi, lasciarsi andare e sospirare: «Ce sta poco a fa'. E' destino». Scriveva Croce che al solo apparire dell'esercito francese, «che forse, con calma e riflessione sarebbe stato respinto», il capitano borbone gridò: «Guagliò, fujmmo!».


Dice bene Domenico Starnone quando afferma che «la gente non si dà da fare semplicemente perchè ha paura della camorra»; dice bene Adolfo Scotto di Luzio quando sostiene che «la società civile non reagisce al degrado perchè è collusa con la politica». Ma queste non sono le uniche ragioni per spiegare l'inerzia napoletana. La realtà è che non è ancora finito il tempo dei palleggi di responsabilità, dello scarica-barile (di monnezza) fra le autorità, e che non si troverà soluzione fino a quando non si troverà coralità, unità di intenti e di passione civile.
E infine più senso civico. La Madre di tutte le Emergenze. Il problema irrisolto dal IX secolo a.C. Anno di fondazione della città.   
di Marcello D'Orta



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Sono andato, tornato, ripartito.

Sono andato, tornato, ripartito.
E così ora sono qui, in un’altra fase della Vita. Abito vicino al ponte Västerbron, a forma di arpa. E’ bellissimo. La mia gratitudine è a scoppio molto ritardato. Faccio in tempo a dimenticare gli atti, i nomi e i volti prima di aver capito quando dovessi ad ognuno.