giovedì 29 agosto 2013

40 anni fa nasceva la sindrome di Stoccolma.

Mi sembra ieri, ma sono passati quarant`anni da quel 23 agosto del 1973 quando un uomo trasandato e dal viso ordinario fece irruzione nella sede della banca di credito svedese a Stoccolma per compiervi una rapina. In quel momento nell’istituto si trovavano tra gli altri quattro giovani donne. Nè l’uomo, nè quelle che poche ore dopo sarebbero diventate suoi ostaggi, potevano immaginare che quella storia, in realtà così comune, avrebbe dato il nome ad un comportamento psicologico noto in tutto il mondo come ‘Sindrome di Stoccolma’, che colpisce a tutt’oggi. Jan Erik Olsson, a quell’epoca 32/enne, era un ladruncolo di piccolo cabotaggio ed era in permesso dal carcere della capitale svedese dove era detenuto per furto. Tentò la rapina in una mattinata di sole e si rese subito conto che avrebbe dovuto compiere un salto di qualità nel suo percorso criminale. Decise di tirare fuori le armi, di sequestrare quattro impiegati, tre donne e un uomo. 
Prima che la porta venisse chiusa, Olsson formulò le sue richieste per non uccidere gli ostaggi: voleva un auto veloce, tre milioni di corone, due pistole, elmetti e giubbotti antiproiettile. Chiese anche che gli venisse portato il suo amico Clark Oluffsson, che all’epoca si trovava in prigione. La polizia sul momento accettò soltanto l’ultima richiesta. Olufsson venne liberato e inviato dentro il caveau con un telefono per permettere a Olsson di comunicare con le autorità.
Oluffsson all’epoca aveva 26 anni e diversi precedenti penali, tra cui una condanna per rapina a mano armata. Ma una volta all’interno del caveau, secondo quanto raccontarono gli ostaggi, non si comportò come il complice di una rapina: aveva l’aria di qualcuno che non voleva trovarsi in quella situazione e sembrava intenzionato ad aiutare gli ostaggi come poteva.
Clark Oluffsson
Già durante il sequestro accaddero alcune cose che attirarono l’attenzione sul rapporto che si stava sviluppando tra ostaggi e rapinatori, Olufsson in particolare. Olsson fece due conversazioni al telefono con il primo ministro svedese dell’epoca, Olof Palme. 
Durante la prima telefonata Olsson minacciò di uccidere gli ostaggi e per sottolineare la minaccia afferrò per il collo una donna, Kristin Enmark. Prima che Olsson riattaccasse il telefono, il primo ministro poté sentire le grida spaventate della donna. Il giorno dopo ci fu un’altra telefonata: Kristin Enmark si scusò per come si era comportata il giorno prima e per le sue grida, accusò la polizia di aver tentato di fare irruzione nel caveau e chiese che i due rapinatori e gli ostaggi venissero liberati. Nel frattempo la polizia aveva scavato diversi fori nel soffitto del caveau, da uno dei quali aveva calato una macchina fotografica per scattare alccune foto dell’interno. Olsson sparò due volte dentro alcuni dei fori, ferendo un agente della polizia scientifica alla mano e al volto. Temendo che la polizia volesse utilizzare i fori per pompare del gas dentro il caveau, Olsson legò dei cappi intorno al collo degli ostaggi, in modo che rimanessero strangolati se un gas di qualche tipo li avesse fatti addormentare. Nonostante i cappi il 28 agosto, cinque giorni dopo, la polizia cominciò a pompare del gas all’interno del caveau, costringendo Olsson ad arrendersi. 
Jan Erik Olsson, subito dopo l`arresto.
Olsson vene condannato a dieci anni per rapina a mano armata, mentre Oluffsson venne assolto. Le testimonianze degli ostaggi sottolinearono che non era stato complice di Olsson in alcun modo e che aveva cercato in ogni modo di aiutarli. Oluffsson dopo la rapina divenne amico di Kristin Enmark e della sua famiglia. I due non ebbero una relazione sentimentale, come alcuni giornali scrissero all’epoca – Oluffsson, invece, ricevette molte lettere da donne che gli scrissero ammirate per il suo comportamento durante la rapina ed ebbe una relazione con una di loro. Oltre alle telefonate di Enmark e alle voci di una sua relazione sentimentale con Oluffsson, una serie di racconti degli ostaggi colpirono molto l’opinione pubblica e spinsero il criminolgo svedese Nils Bejerot a coniare l’espressione “sindrome di Stoccolma” durante un’intervista televisiva poco dopo la rapina.
Per esempio tutti gli ostaggi raccontarono che durante il sequestro si erano sentiti più minacciati dalla polizia che da Olsson. Uno di loro raccontò di aver chiesto a Olsson di sparargli a una gamba, in modo da spingere la polizia a cedere alle sue richieste. La sindrome di Stoccolma
Da allora il termine “sindrome di Stoccolma” venne utilizzato spesso in molti altri casi di cronaca per descrivere il rapporto di complicità che a volte si creava tra ostaggi e rapitori. La sindrome di Stoccolma è in genere descritta come una situazione paradossale durante la quale gli ostaggi esprimono sentimenti positivi nei confronti dei loro rapitori, trovandosi a dipendere completamente da loro: trascurano il pericolo al quale sono sottoposti e scambiano la mancanza di abusi da parte dei loro rapitori per atti di gentilezza. Secondo l’FBI in circa il 30 per cento dei casi gli ostaggi sviluppano una qualche forma di sindrome di Stoccolma.  
E poi c`è chi scrive che in Svezia non succede mai niente…!


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Sono andato, tornato, ripartito.

Sono andato, tornato, ripartito.
E così ora sono qui, in un’altra fase della Vita. Abito vicino al ponte Västerbron, a forma di arpa. E’ bellissimo. La mia gratitudine è a scoppio molto ritardato. Faccio in tempo a dimenticare gli atti, i nomi e i volti prima di aver capito quando dovessi ad ognuno.