martedì 31 marzo 2015

Essere italiani.


Che cosa significa essere italiani, oggi? Prima di tutto sentirsi italiani e contenti di esserlo. Il che non vuol dire churchillianamente, «sto con il mio Paese (o il mio popolo) giusto sbagliato che sia».
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Significa non denigrarsi, attività che ci è molto congeniale, e essere coscienti che la nostra storia e la nostra cultura fanno di noi un popolo molto speciale, quali che siano i problemi che dobbiamo affrontare – oggi – come nazione e Stato.
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Significa capire che in molti Paesi dell’Occidente possono esserci realtà, politiche e sociali, migliori di quelle di cui disponiamo noi: ma questo non significa che ovunque, tutto, sia meglio che da noi, meglio di noi. Continuando con questa autodenigrazione, così provinciale, finiremmo per ridurci psicologicamente proprio come quegli extracomunitari che sognano di arrivare in un Paese «altro», quale che sia. Essere italiani, oggi, significa accettare l’evento epocale della globalizzazione sapendo che non la si può evitare, ma anche che non si deve farsene divorare. E che l’unico modo per mantenere la nostra identità è, appunto, volerne avere una, rispettarla, proteggerla. Significa continuare a subire l’Europa unita (perché l’abbiamo subita, non voluta) senza cedere all’appiattimento che l’Ue vuole imporre a tutti i popoli europei per formarne un altro, gigantesco e astratto, senza radici e senza coscienza di sé. Charles de Gaulle parlava di «una certa idea della Francia», che ai suoi occhi era «come la Santa Vergine di un affresco medioevale, votata ad un destino eminente ed eccezionale». La grandeur.
Ida Magli
Dopo il fascismo, nessun italiano mediamente prudente oserebbe dire qualcosa del genere di noi/popolo e della nostra patria. L’ha fatto, di recente, un’italiana geniale quanto coraggiosa, Ida Magli: «Gli italiani hanno avuto e hanno intelligenza e creatività superiore a tutti gli altri popoli. Per questo sono stati e sono superiori» (Elogio agli italiani, Rizzoli, 2000). Naturalmente, la superiorità ci viene dalla nostra storia e da come ci ha formati e sviluppati, certo non da questioni biologiche di razza. Autodenigrarci, sport nazionale, per le quotidiane miserie della cronaca e della politica significa avere sguardo da miope, e ignorare i secoli di storia che hanno fatto – fanno – di noi un grande popolo. È lo stesso motivo per cui i francesi si sentono, e sono, un grande popolo. Loro, però, non giocano al ribasso, si compiacciono di sé e amano se stessi nella propria nazione (e per questo ci stanno antipatici).

È esemplare quanto ha dichiarato il ministro dell’Immigrazione, dell’Integrazione e dell’Identità nazionale Eric Besson: la nazione «rappresenta un valore imprescindibile di fronte alle sfide poste dalla deriva dei nuovi integralismi, dallo sviluppo delle attuali forme di comunitarismo e di regionalismo, dalla costruzione progressiva dell’identità europea, dalla mondializzazione dell’economia». È così che un governo moderatamente di destra come quello francese non ha nessun imbarazzo a chiamare un ministero dell’«Identità nazionale», ben sapendo che l’espressione fu usata come cavallo di battaglia, tre decenni fa, dal deprecato xenofobo Jacques Le Pen. Con la stessa indifferenza ai luoghi comuni del politicamente corretto, Besson ha lanciato un grande dibattito su che cosa significa «essere francese oggi»: ovvero, anche, su come possa diventarlo un immigrato extracomunitario. Tutt’altro dibattito, si badi bene, da quello – piccino - in corso da noi: se concedere il voto alle amministrative, e quando dare la cittadinanza, e se nascere in Italia basti per essere italiani. Qui si tratta di integrazione fra culture, difficile da operare per legge. Lo scambio fra culture diverse è da sempre uno strumento di progresso. Confrontandosi e interagendo l’una con l’altra, la somma di esperienze, tradizioni e caratteristiche che chiamiamo «cultura» può arricchire i diversi gruppi. Grazie alla lingua, alla religione, alla storia comuni, a due guerre mondiali, al fascismo, alla Chiesa, alla televisione e ai centocinquanta anni trascorsi, possiamo dire di essere un popolo coeso, più unito di quanto sembri dalle differenze nord/sud.

Ma siamo anche un popolo abituato da secoli a considerare gli altri come diversi e ostili in quanto invasori e padroni, anche se apportatori di ordine, tranquillità e angherie da accettarsi per quieto vivere («Franza o Spagna purché se magna»). Siamo abituati a integrazioni «alte», con culture superiori alla nostra per ordinamento amministrativo, capacità militari, rapidità evolutiva, ma che abbiamo reso sempre poco influenti sul nostro modo di essere perché potevamo opporre loro una superiorità estetica e storica. Né, per mancanza di colonie a lungo tenute, siamo abituati a culture diverse da quelle europee, che nascono in gran parte dalla matrice latina, quindi da noi. All’improvviso, da pochi anni, ci troviamo a dover convivere – senza averlo scelto – con popoli che non conoscono e non riconoscono la nostra storia, la nostra religione, la nostra cultura.
Non occorre citare i fatti di Rosarno per capire che l’Italia e gli italiani sono turbati dalla grande trasformazione sociale dovuta alla massiccia immigrazione di gente di cultura e religione diversa. È un fenomeno che viviamo in ritardo rispetto all’Europa e che stiamo affrontando (meglio, non affrontando) in modo inadeguato, incerto, confuso. Non siamo aiutati, in questo frangente, da un mondo politico/intellettuale pochissimo analitico e propositivo, dominato da un buonismo insulso o da una ripulsa istintuale. Gli intellettuali, in particolare, ci mettono del loro dividendosi fra «arcitaliani» e «antitaliani»: entrambi i gruppi intenti a difendere una propria eccellenza – pro o contro – che finisce per essere la stessa cosa: perché gli «arci» sono anche «anti» e viceversa. E, fra una preposizione e l’altra, perdono la strada. Che è, poi, quella maestra di una definizione antica: un popolo è fatto dalla sua lingua, dalla sua storia, dalla sua religione.

La lingua si impara. Chi è bravo, alla svelta, chi lo è meno in parecchio tempo. Ma una cosa è parlare una lingua per essere in grado di comunicare, altra cosa è coglierne i profondi significati di senso. Anche la storia si impara, più facilmente, ma la «comunanza di storia» è fatta non di libri e date e avvenimenti, bensì di un sentire comune, formato evento dopo evento nei secoli, con le esperienze della vita quotidiana. Io sono, anche, quel che sono stati i miei trisnonni, di cui si è persa la memoria. Quanto alla religione, è il più difficile dei problemi, perché investe tutto il modo di essere, anche gli strati più profondi e inconsci del comportamento. Tant’è che un convertito – da qualsiasi religione a qualsiasi altra – rimane culturalmente cristiano, o ebreo, o musulmano.
A dimostrare che la religione è l’elemento più importante per la comprensione fra popoli (e ve lo dice un non credente) abbiamo esempi quotidiani, a centinaia di migliaia: il nostro rapporto con sudamericani e filippini (geograficamente lontanissimi) è molto più facile, immediato e meno spigoloso che con gli islamici provenienti da cento miglia oltre il Mediterraneo. I musulmani che vengono in Italia per motivi economici, aderiscono con più difficoltà – quando lo fanno - ai nostri modi di essere, alla nostra cultura, perché hanno storie e modelli forti, diversi dai nostri e per loro difficilmente rinunciabili. Infine, al di là dei problemi di lingua, storia, religione, ce n’è un altro. 
www.giordanobrunoguerri.it

L’immigrato, per diventare davvero italiano, dovrebbe avere – intimamente – il piacere di esserlo. Lo stesso che dobbiamo avere noi.


venerdì 27 marzo 2015

Addio Tomas, poeta del silenzio.


Tomas Tranströmer, premio Nobel per la Letteratura nel 2011, ci ha lasciato qualche ora fa a 82 anni.
A riferire della scomparsa è stato il suo editore, Bonniers. A Tranströmer va il merito di aver esplorato il rapporto tra il nostro mondo interiore e quello reale.

Intuizioni sull'identità umana
Psicologo di professione, era il massimo esponente della generazione di intellettuali che si è affermata dopo la Seconda Guerra mondiale e punta a suggerire che l'esame poetico della natura offre intuizioni sull'indentità umana e sulla sua dimensione spirituale, entrando spesso in territori metafisici.
"L'esistenza di un essere umano non finisce dove terminano le sue dita", scrisse un critico svedese della sua poesia, definendo i suoi lavori "preghiere secolari".

Metafore e immagini
Le sue poesie sono ricche di metafore e immagini e tratteggiano immagini semplici della vita quotidiana e della natura. Il suo stile introspettivo, descritto da Publishers Weekly come "mistico, versatile e triste", era in contrasto con la vita reale di Tranströmer, ricca di impegno e attivita' al servizio di un mondo migliore, e non solo scrivendo poesie.

Nato a Stoccolma
Nato il 15 aprile 1931 a Stoccolma, Tranströmer crebbe da solo con la madre perché il padre li aveva lasciati; si laureò in psicologia nel 1956 e iniziò a lavorare in un istituto per minorenni disadattati nel 1960. Insieme psicologo e anche poeta, lavorò con disabili, carcerati e tossicodipendenti, producendo contemporaneamente una grande quantità di lavori poetici.
La sua prima miscellanea, "Diciassette poesie", quando aveva appena 23 anni, è stata pubblicata dalla più prestigiosa casa editrice nord europea, Bonnier.
E proprio la casa editrice descrive la sua poetica come "un'analisi permanente dell'enigma dell'identità individuale di fronte alla diversità labirintica del mondo".
Probabilmente Tranströmer è l'autore che con Strindberg e Swedenborg, ha più segnato la letteratura moderna europea. Non a caso nel titolo tradotto in italiano c'è il motivo del silenzio. I suoi versi sembrano nascere da un'immersione nella natura intatta, dove il fragore della modernità tace, rimane come sui confini. 

Così recita un testo dal titolo Pagina di libro notturno: 
«Sbarcai una notte di maggio / un gelido chiaro di luna / dove erba e fiori erano grigi / ma il profumo verde. / Salii piano un pendìo / nella daltonica notte / mentre pietre bianche / segnalavano alla luna. / Uno spazio di tempo / lungo qualche minuto / largo cinquantotto anni. / E dietro di me / oltre le plumbee acque luccicanti/ c'era l'altra costa / e i dominatori./ Uomini con futuro/ invece di volti».
È l'atmosfera raccolta e vasta insieme delle isole del nord, dove la luce dei lunghi crepuscoli ti aiuta a vedere più chiaro dentro te stesso e a percepire la nitidezza delle cose naturali, la loro anima segreta.
La sua ultima opera publicata nel 2004 è una collezione di 45 'haikus', poesie in stile giapponese che invocano un aspetto della natura o le stagioni.
Nel 1990 Tranströmer venne colpito da un ictus, che compromise la sua capacità di parlare. Da allora, la musica diventò la passione principale della sua vita: suonava il pianoforte ogni giorno, ma usando la mano sinistra (la destra era danneggiata dall'ictus)e trascorreva la sua mattina ascoltando musica classica.
Io voglio salutarlo con questo brano di Roberto Vacchioni: ”Fernando Pessoa” un altro grande come Lui. Chissà cosa scriveranno lassù…!!




Attenzione

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Sono andato, tornato, ripartito.

Sono andato, tornato, ripartito.
E così ora sono qui, in un’altra fase della Vita. Abito vicino al ponte Västerbron, a forma di arpa. E’ bellissimo. La mia gratitudine è a scoppio molto ritardato. Faccio in tempo a dimenticare gli atti, i nomi e i volti prima di aver capito quando dovessi ad ognuno.