Che cosa significa essere italiani, oggi? Prima di tutto
sentirsi italiani e contenti di esserlo. Il che non vuol dire
churchillianamente, «sto con il mio Paese (o il mio popolo) giusto sbagliato
che sia».
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Significa non denigrarsi, attività che ci è molto congeniale, e
essere coscienti che la nostra storia e la nostra cultura fanno di noi un
popolo molto speciale, quali che siano i problemi che dobbiamo affrontare –
oggi – come nazione e Stato.
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Significa capire che in molti Paesi dell’Occidente possono
esserci realtà, politiche e sociali, migliori di quelle di cui disponiamo noi:
ma questo non significa che ovunque, tutto, sia meglio che da noi, meglio di
noi. Continuando con questa autodenigrazione, così provinciale, finiremmo per
ridurci psicologicamente proprio come quegli extracomunitari che sognano di
arrivare in un Paese «altro», quale che sia. Essere italiani, oggi, significa accettare l’evento epocale
della globalizzazione sapendo che non la si può evitare, ma anche che non si
deve farsene divorare. E che l’unico modo per mantenere la nostra identità è,
appunto, volerne avere una, rispettarla, proteggerla. Significa continuare a
subire l’Europa unita (perché l’abbiamo subita, non voluta) senza cedere
all’appiattimento che l’Ue vuole imporre a tutti i popoli europei per formarne
un altro, gigantesco e astratto, senza radici e senza coscienza di sé. Charles
de Gaulle parlava di «una certa idea della Francia», che ai suoi occhi era
«come la Santa Vergine di un affresco medioevale, votata ad un destino eminente
ed eccezionale». La grandeur.
Ida Magli |
È esemplare quanto ha dichiarato il ministro
dell’Immigrazione, dell’Integrazione e dell’Identità nazionale Eric Besson: la
nazione «rappresenta un valore imprescindibile di fronte alle sfide poste dalla
deriva dei nuovi integralismi, dallo sviluppo delle attuali forme di
comunitarismo e di regionalismo, dalla costruzione progressiva dell’identità
europea, dalla mondializzazione dell’economia». È così che un governo
moderatamente di destra come quello francese non ha nessun imbarazzo a chiamare
un ministero dell’«Identità nazionale», ben sapendo che l’espressione fu usata
come cavallo di battaglia, tre decenni fa, dal deprecato xenofobo Jacques Le
Pen. Con la stessa indifferenza ai luoghi comuni del politicamente corretto,
Besson ha lanciato un grande dibattito su che cosa significa «essere francese
oggi»: ovvero, anche, su come possa diventarlo un immigrato extracomunitario.
Tutt’altro dibattito, si badi bene, da quello – piccino - in corso da noi: se
concedere il voto alle amministrative, e quando dare la cittadinanza, e se
nascere in Italia basti per essere italiani. Qui si tratta di integrazione fra
culture, difficile da operare per legge. Lo scambio fra culture diverse è da
sempre uno strumento di progresso. Confrontandosi e interagendo l’una con
l’altra, la somma di esperienze, tradizioni e caratteristiche che chiamiamo
«cultura» può arricchire i diversi gruppi. Grazie alla lingua, alla religione,
alla storia comuni, a due guerre mondiali, al fascismo, alla Chiesa, alla
televisione e ai centocinquanta anni trascorsi, possiamo dire di essere un
popolo coeso, più unito di quanto sembri dalle differenze nord/sud.
Ma siamo anche un popolo abituato da secoli a considerare
gli altri come diversi e ostili in quanto invasori e padroni, anche se
apportatori di ordine, tranquillità e angherie da accettarsi per quieto vivere
(«Franza o Spagna purché se magna»). Siamo abituati a integrazioni «alte», con
culture superiori alla nostra per ordinamento amministrativo, capacità
militari, rapidità evolutiva, ma che abbiamo reso sempre poco influenti sul
nostro modo di essere perché potevamo opporre loro una superiorità estetica e
storica. Né, per mancanza di colonie a lungo tenute, siamo abituati a culture
diverse da quelle europee, che nascono in gran parte dalla matrice latina,
quindi da noi. All’improvviso, da pochi anni, ci troviamo a dover convivere –
senza averlo scelto – con popoli che non conoscono e non riconoscono la nostra
storia, la nostra religione, la nostra cultura.
Non occorre citare i fatti di Rosarno per capire che
l’Italia e gli italiani sono turbati dalla grande trasformazione sociale dovuta
alla massiccia immigrazione di gente di cultura e religione diversa. È un
fenomeno che viviamo in ritardo rispetto all’Europa e che stiamo affrontando
(meglio, non affrontando) in modo inadeguato, incerto, confuso. Non siamo
aiutati, in questo frangente, da un mondo politico/intellettuale pochissimo
analitico e propositivo, dominato da un buonismo insulso o da una ripulsa
istintuale. Gli intellettuali, in particolare, ci mettono del loro dividendosi
fra «arcitaliani» e «antitaliani»: entrambi i gruppi intenti a difendere una
propria eccellenza – pro o contro – che finisce per essere la stessa cosa:
perché gli «arci» sono anche «anti» e viceversa. E, fra una preposizione e
l’altra, perdono la strada. Che è, poi, quella maestra di una definizione
antica: un popolo è fatto dalla sua lingua, dalla sua storia, dalla sua
religione.
La lingua si impara. Chi è bravo, alla svelta, chi lo è meno
in parecchio tempo. Ma una cosa è parlare una lingua per essere in grado di
comunicare, altra cosa è coglierne i profondi significati di senso. Anche la
storia si impara, più facilmente, ma la «comunanza di storia» è fatta non di
libri e date e avvenimenti, bensì di un sentire comune, formato evento dopo
evento nei secoli, con le esperienze della vita quotidiana. Io sono, anche,
quel che sono stati i miei trisnonni, di cui si è persa la memoria. Quanto alla
religione, è il più difficile dei problemi, perché investe tutto il modo di
essere, anche gli strati più profondi e inconsci del comportamento. Tant’è che
un convertito – da qualsiasi religione a qualsiasi altra – rimane culturalmente
cristiano, o ebreo, o musulmano.
A dimostrare che la religione è l’elemento più importante
per la comprensione fra popoli (e ve lo dice un non credente) abbiamo esempi
quotidiani, a centinaia di migliaia: il nostro rapporto con sudamericani e
filippini (geograficamente lontanissimi) è molto più facile, immediato e meno
spigoloso che con gli islamici provenienti da cento miglia oltre il
Mediterraneo. I musulmani che vengono in Italia per motivi economici,
aderiscono con più difficoltà – quando lo fanno - ai nostri modi di essere,
alla nostra cultura, perché hanno storie e modelli forti, diversi dai nostri e
per loro difficilmente rinunciabili. Infine, al di là dei problemi di lingua,
storia, religione, ce n’è un altro.
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L’immigrato, per diventare davvero
italiano, dovrebbe avere – intimamente – il piacere di esserlo. Lo stesso che
dobbiamo avere noi.