Noi, quando eravamo ragazzi tra gli anni Sessanta e Settanta, avevamo la tv in bianco e nero, e aspettavamo con ansia le otto di sabato sera per vedere i cartoni animati della tv svizzera, tifando invano contro lo struzzo e per Wile E. Coyote (che chiamavamo Willy). Avevamo letto Pinocchio e il libro Cuore . Sandokan e Orzowei ci parvero la modernità.L`Italia su cui aprivamo gli occhi non era il paradiso in terra. Anzi, era senz`altro peggiore di quella di oggi. Era un Paese scosso da tensioni, talora da tragedie. Era un Paese più inquinato: fabbriche in città, acciaierie in riva al mare, ciminiere, smog. Era un Paese più violento: bombe fasciste, agguati brigatisti, sequestri come quello di Cristina Mazzotti. Era un Paese più maschilista, in cui i «femminicidi» non facevano notizia: chi trovava la moglie con un altro e la ammazzava non commetteva un crimine ma un «delitto d`onore», spesso non finiva neppure in galera.
Era un Paese più semplice, con meno aspettative e meno pretese. Non si festeggiava Halloween ma si piangevano i Morti. La marcia più alta era la quarta. C`erano la leva obbligatoria e i maneggi per evitarla, la visita militare, la naja, il car, il nonnismo. I calciatori andavano in vacanza in Riviera sotto l`ombrellone e non in Polinesia. La mafia ufficialmente non esisteva, ma in Sicilia era molto più potente di adesso, anche perché in pochi la combattevano. A Napoli c`era il colera. Ma in ogni città c`erano molti più bambini, e non erano chiusi in casa, a giocare con il Nintendo o l`iPhone o l`iPad, a simulare sport con la Wii, a festeggiare il compleanno con gli animatori ingaggiati dalla mamma, i palloncini, le facce dipinte e i giochi organizzati. Si giocava per strada: a nascondino, ai quattro cantoni sul sagrato della chiesa, a palla avvelenata con le ragazze, a pallone con i maschi, fino a quando non interveniva il vigile o il padrone dell`auto che faceva da porta. Avevamo sempre le ginocchia e i gomiti sbucciati.
L`Italia di allora era molto più modesta e povera dell`Italia di oggi. Ma era un Paese che non si lamentava. Per questo mi piacerebbe raccontarlo ai nostri ragazzi, che si lamentano molto, a volte con ragione e a volte no.Lo so che i nostri giovani hanno di che piangere. L`Italia tratta in modo scandaloso i suoi figli. Ne fa pochi. Li fa studiare male. Li grava di debiti. Non gli offre un lavoro. Soprattutto, non li prepara alle difficoltà che incontreranno.Viziamo troppo i nostri ragazzi. Tentiamo di accontentarli in ogni capriccio, di anticipare le loro richieste, di prevenire i loro desideri. Li sfamiamo al di là di quanto desiderino. E quando si affacciano sul mondo sono già sazi. (Spesso, anche grassi). Provate a fare un giro davanti a un liceo romano o milanese: non c`è una bicicletta. Hanno tutti lo scooter, o il papà che li porta in macchina. E la colpa, se si deprimono davanti ai primi ostacoli, non è loro; è nostra.
Noi avevamo invece una fortuna: il collegamento tra le generazioni era solido. Non avevamo vissuto la fame e la guerra; ma sapevamo che c`erano state. Non abbiamo memoria diretta della ricostruzione e del boom; ma ne avevamo assorbito l`energia. I nonni non erano simpatici vecchietti che venivano in visita ogni tanto, portando regali e inventandosi qualsiasi cosa per strappare un sorriso ai nipoti. Vivevamo con loro. Mia bisnonna Matilde, detta Tilde, sposò un uomo che non aveva mai visto: non era la persona giusta con cui lamentarmi per le mie prime pene d`amore. Nonno Lorenzo aveva fatto la Grande Guerra e visto i compagni di prigionia morire di tifo; non mi potevo lamentare per il morbillo (che i ragazzi di oggi non sanno cosa sia). L`altro nonno, Aldo, a 12 anni faceva il garzone in una macelleria, e andava a piedi per sedici chilometri da Canale ad Alba: non aveva la bicicletta né i soldi per la corriera, e non sarebbe mai salito sulla corriera senza biglietto.
«Adesso basta piangere!»