”Ci sono le fate a Stoccolma” è un libro che racconta la fuga dall’Italia e la ricerca di un posto dove sentirsi “perfetti”, lo scrittore individua il suo posto perfetto in Stoccolma.
Se siete quelli che reputano l’Italia il paese più bello del mondo, (io sono uno di quelli) vi consiglio di non leggerlo, io l`ho letto ugualmente perchè a pensarci bene alla fine nessun paese è il più bello del mondo, perchè la differenza la facciamo noi e solamente noi. La mia esperienza personale mi fà pensare che nel mondo ci siano posti dove uno si senta più libero, città dove stranamente vi sentite a vostro agio e città dove vi sentite nervosi, e soli trà milioni di persone.
Ma ritornando al tema del libro, confrontiamo i pregi dell’Italia e quelli della Svezia,è chiaro che se io non avessi preferito di gran lunga i secondi dato che vivo in Svezia da 45 anni sarei già scappato da un pezzo a "gambe levate."
Chi se ne frega del clima (meglio non pensarci), del cibo (viene bene anche in Svezia), a me del resto interessano altre cose.
Una di
queste è che, in Svezia al centro di tutto viene messo l’individuo, in Italia
al centro di tutto c’è la famiglia (e nemmeno sostenuta dallo Stato) e perché
tutto ciò? Forse perché in Italia c`è un ”omino” che va vestito tutto di bianco
che continua a predicare che la donna, si realizza solo nella cura dei figli e
del marito? (Chiedo venia, non volevo… lo buttata lí… ) Alla fine questo libro mi ha
fatto riflettere e pensare ad un Italia dove tutto s’appoggia sull’apparenza.
Nel libro l’autore parla di essere stato educato al familismo italiano dove ha
appreso a sue spese fin da bambino cosa sia l’ansia, la paura di far “brutta
figura”, ad essere sincero anche io convivo un pò con la paura di far ”brutta
figura” poi che me ne frego altamente di cosa pensano gli altri è un altro
discorso ma vi assicuro che in Svezia quest’ansia non esiste e non si vede ne
trà gli uomini e tanto meno trà le donne ,dove invece c’è una tranquilla
coscienza di sé e una certa voglia di comunicare.
Un libro molto interessante.
Un libro molto interessante.
Voglio
proporvi le prime pagine…buona lettura.
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La
soluzione dei problemi italiani potrebbe chiamarsi già Copenaghen. Mi trovo, in
una splendente mattina di sole, nella suite di un albergo che un tempo era un
magazzino, in Nyhavn. Volgendo lo sguardo verso la finestra inondata di luce,
vedo i traghetti, i barconi, le chiatte sul canale; mi giunge il rumore
ovattato dei motori.
Più lontano, dall'altro lato del porto, quello di una gru
diligente e operosa. In basso, una ragazza fuma una sigaretta seduta sulla
banchina, gambe all'aria verso l'acqua, tutt'uno con lo scintillio del canale.
Ci sarebbe da correre ad abbracciarla (senza che nemmeno sia bionda), se lei
non montasse svelta sulla bicicletta appoggiata lì accanto.
Donna Wood
è forse il nome dell’attracco del vaporetto (a Venezia si direbbe così) sotto
la mia finestra, e di sicuro è ciò che recita un'insegna con tanto di
virgolette civettuole.
Non c'è niente di freddo o ingessato in questo nord
dalla luce argentata, con una con una temperatura di venticinque gradi. Chi mai
potrebbe avere nostalgia dell'Italia, del Mediterraneo, della sua afa e di quella
vitalità fangosa che al fondo è solo studiato rinvio della morte? La soluzione
è andarsene, non occuparsi più dell’Italia.
Crede che
sia possibile? Crede che si libererà di se stesso alla svelta e
facilmente?
Chi ha parlato? La luce entra nella suite da una finestra
non ampia; al passaggio delle barche sul canale, disegna ghirigori sul legno
del tavolo, ombre che agitano figure astratte. Nessuno qui a parte me, eppure è proprio come
se ci fosse qualcuno…
Pochi
minuti dopo, nella sala della prima colazione dell’albergo, fa la sua comparsa
un signore abbronzato – i capelli brizzolati, la camicia aperta sul petto come
andava nei primi anni settanta – che si serve al buffet riempiendosi il piatto.
«Buon giorno, io sono il Diavolo», dice venendosi a sedere al mio tavolo. «Non
si spaventi», aggiunge con un sorriso largo e accattivante, «non sono Belzebù.
Hanno cominciato a chiamarmi così un po’ di anni fa sulla Riviera Adriatica, e
alla fine il nomignolo mi è rimasto appiccicato al punto che io stesso mi sono
persuaso di essere un po’ un suo parente».
Lo stupore
deve apparire sul mio volto se lo sconosciuto si sente di rassicurarmi: «In
ogni caso, se vuole restare tranquillo e mangiare la sua colazione da solo, non
ha che da dirlo». Gli faccio cenno di restare, incuriosito nonostante tutto.
Apprendo così che il signore è un veterano dei paesi scandinavi, in cui è
arrivato per la prima volta in motocicletta poco più che ventenne, e nei quali
è ritornato regolarmente nel corso degli anni. Da Cesena, sua città natale, il
tragitto a quei tempi era facile e diretto: Rimini o Riccione e poi Stoccolma e
Oslo sulla scia di qualche vichinga, meglio se in formato Anita Ekberg. Era la
dolce vita, che una volta in Italia c’era e adesso non più.
Mi sembra
chiaro come il Diavolo sia il residuato di una guerra condotta a colpi di
bravate sulla spiaggia, playboy in declino di un mondo in declino, il tipico
romagnolo affamato di tette e sederi, il cui interesse per i paesi scandinavi
si concentra tutto in tette e sederi.
Taglio corto e faccio per alzarmi, ma lui
mi trattiene per un braccio. «So bene del resto cosa significhi fuggire
dall’Italia…» Quasi avesse indovinato il mio pensiero, pare cerchi in me un
alter ego, l'amico o il complice che per lui non potrei mai essere. Mi stacco
con fredda cortesia, e mentre mi allontano lo sento mormorare ancora qualcosa:
una sorta di «Arrivederci…» con intonazione ironica.
In una Opel
a noleggio ho caricato la bicicletta prima di prendere la rotta del nord per
tentare di risolvere i miei problemi italiani. Ho intenzione di vivere
Stoccolma pedalando nelle sue strade dalle molte piste ciclabili, nel centro,
nei parchi, lungo l'acqua.
Arrivo alla meta in piena notte, cioè nel chiarore
di un infinito crepuscolo. Stoccolma è immersa in un'incertezza assente. Alle
due e mezzo il crepuscolo è già l'aurora con i suoi cinguettii. Nella
strada chiara e silenziosa vedo volare una ragazza in bicicletta avvolta in uno
scialle rosa.
«Vede, ci
sono le fate a Stoccolma…», sembra dirmi una voce che non so da dove venga e
non riesco a identificare.
Stoccolma
conosce la presenza intensa delle donne. Sono ovunque, a qualunque ora, forti
della loro piena libertà di movimento e della loro dignità; muovono i loro
corpi con la grazia di chi non ha nulla da temere e può, se vuole, giocare con
calma il gioco della seduzione.
Più tardi,
seduto al tavolino di un caffè nei pressi della casa di Strindberg, mi capita
di pensare che sono rimasto indietro con tutto: i libri, i viaggi, gli amori. E
la migliore prova di questo far niente è data proprio dal mio essere a
Stoccolma. L'aria è frizzante, il cielo terso attraversato da nuvole bianche.
Non faccio nulla se non osservare una tale seduta al caffè di fronte al mio,
che potrebbe andarmi fin troppo bene se non avesse un appuntamento con uno che
potrebbe essere me se solo non portasse i pantaloni corti
Mi sembra
di essere lo scrittore più scrittore che ci sia: la giacca da scrittore, il
quadernetto, la penna, perfino gli occhiali scuri… Eppure non scrivo niente. Da
mesi i miei lavori sono sospesi, l'unica cosa che mi riesca di fare è passeggiare.
Qui a Stoccolma tutto mi piace a parte me stesso. La ragione è semplice: sono
un pezzo d’Italia e io detesto l’Italia. Il suo mammismo metafisico, quella
particolare mistura di moderno e tradizionale ad alto tasso di familismo che ti
taglia le gambe; e poi gli intellettuali servili e felloni, incapaci di formare
un contesto che non sia quello del loro semplice opportunismo: insomma tutto
ciò che vorrei lasciarmi alle spalle e invece mi accompagna sempre.
Perfino il
clima italiano mi è diventato insopportabile: un caldo schifoso in estate, e
poi in inverno il gelo, la nebbia, la pioggia… Quella dell’eterno bel
tempo sembra una favola inventata dagli italiani per vendersi meglio.
da
un diario di Rino Genovese (napoletano verace).