Quante volte vi è capitato di sentir dire che “in Svezia
pagano più tasse di noi, ma hanno molti più servizi”? Quest’affermazione è
evidentemente semplicistica, così come le repliche che puntualmente seguono. Ma
come funziona davvero, questo “modello svedese”? È davvero basato sul ruolo
centrale del settore pubblico? La verità è che è molto diverso da come appare.
E forse, per questo, ancora più interessante. Un libro molto chiaro
sull’argomento è “Private choice in the public sector: the new swedish welfare
model”, di Karin Svanborg-Sjövall.
Karin Svanborg-Sjövall |
Tra queste idee accese un notevole dibattito, e risultò
paradigmatica negli anni a venire, quella di aprire il settore dell’istruzione
ai privati. Scuole e asili nido, infatti, erano sempre stati gestiti dallo
Stato, e la scelta della scuola affidata al Comune di appartenenza. Nel 1982 il
Partito Conservatore presentò al Riksdag (il Parlamento svedese) una mozione a
tutela della “libertà delle famiglie di scegliere l’asilo e la scuola dove
mandare i propri figli”. Nei mesi successivi interviste e sondaggi rilevarono
l’insoddisfazione di genitori e insegnanti, oltre al risparmio di soldi
pubblici che avrebbe sortito una riforma del sistema. E alla fine del 1983, una
S.r.l. -la Pysslingen- aprì il primo asilo nido privato, puntando a
razionalizzare le risorse in modo da mantenere costi ridotti pur offrendo
servizi più mirati alle famiglie. Il caso suscitò tanto scalpore che il governo
(nuovamente capeggiato da Olof Palme) emanò nel 1985 una legge ad hoc (la Lex
Pysslingen) per vietare il conferimento di denaro pubblico agli asili privati.
La Lex Pysslingen restò in vigore fino al 1992, quando
l’allora ministro Per Unckel riformò l’istruzione introducendo il sistema
tuttora vigente, basato sul sistema dei voucher ideato da Milton Friedman. Con
questo sistema i Comuni versano all’istituto che lo studente decide di
frequentare un voucher d’importo pari al costo medio di una scuola pubblica del
Comune stesso. Le scuole non possono prevedere costi aggiuntivi, né scegliere
gli studenti da accogliere: entra chi s’iscrive prima.
Franska Skolan. (La scuola francese di Stoccolma) |
Anche chi opponeva pregiudizi e ideologie al fatto che a
gestire l’istruzione fossero società a scopo di lucro ha dovuto ricredersi. Gli
stessi socialdemocratici, che vent’anni fa paventavano una correlazione
automatica tra profitto e minore qualità dell’istruzione, richiedono oggi
solamente l’allineamento di tutte le scuole a determinati standard qualitativi.
Il che, peraltro, non sembra essere affatto un problema. Nei test nazionali del
2010, per esempio, 47 delle 50 scuole peggio classificate erano pubbliche. Per
quanto riguarda il profitto, questo non è e non può essere lo scopo su cui si
regge il sistema educativo di un paese. Ma è uno stimolo all’innovazione e
all’efficienza.
Le scuole private ricevono un importo pari alla media del
costo di una scuola pubblica per ogni studente iscritto. Dunque, guadagnano in
base al numero di studenti che riescono ad attirare. E come li attirano? Non
certo con costi più bassi, che non possono offrire. Bensì, evidentemente, con
un più alto tasso qualitativo. Una delle “società di scuole” più grandi del
paese, la “Kunskapsskolan”, ha aperto il primo istituto nel 2000. Ma i profitti
hanno iniziato a superare le perdite solo nel 2009. Cos’avrà fatto questa
società in quei 9 anni? La risposta è semplice: cercato di attrarre più
studenti, migliorando la qualità dei servizi offerti.
Quello dell’istruzione è solo uno dei molti campi in cui un
nuovo patto pubblico/privato e un allentamento della tensione ideologica fra
diverse bandiere politiche potrebbero aiutare l’Italia a migliorarsi. Prendendo
esempio da paesi -come la Svezia- la cui “vena sociale” non possa essere messa
in discussione.
FoF