lunedì 7 marzo 2016

Troppo severi con gli svedesi.

foto by: Jonna Jinton

Quando ho ricevuto l’invito a trascorrere un anno presso l’istituto per lo studio delle migrazioni di Malmö, non sapevo che avrei assistito, dal suo epicentro, alla crisi di una superpotenza. Come guardare lo spirito del mondo a cavallo, senza il cavallo.
Quando si scrive della Svezia, si aggiunge «la superpotenza umanitaria». Meno di dieci milioni di persone, ma la bandiera svedese sventola su tutte le crisi del pianeta, primi ad arrivare, ultimi a darla per persa. I loro politici vengono uccisi cercando di scongiurare massacri. La Svezia riceve più rifugiati, li accoglie meglio, investe di più su di loro. Gli svedesi sono sempre i buoni. Credo sia questo a spiegare la mania degli scrittori (e dei lettori) svedesi per serial killer e crimini morbosi.
Gli stessi svedesi si vedono così, e senza ironia. Chiedevi ai colleghi perché la Svezia facesse l’opposto della Danimarca, che ha un atteggiamento sull’immigrazione assai restrittivo, e loro rispondevano (seri) che avevano il dovere di dare il buon esempio. Appena arrivato ho seguito una conferenza stampa in cui un giornalista – naturalmente straniero - chiedeva a un ministro quanti rifugiati avrebbero accettato. Il ministro, che poi è una ministra, ha risposto stupita «tutti quelli che arriveranno naturalmente», e finita lì. A me sembrava strano, a tutti gli altri nella stanza no.
Il fatto è che Malmö - un pelo più grande di Verona – è la capitale informale di questa superpotenza.
Quattro decenni fa, la città era il caso disperato della Scandinavia. Cresciuta sull’industria navale, il suo simbolo era l’enorme gru dei cantieri. Un giorno, l’industria navale scomparve. Persino la gru venne venduta a un porto coreano, dove un’agenzia porta in pellegrinaggio i nostalgici locali. Seguirono i pusher in centro, i palazzi abbandonati, le madri che dicono ai figli di non andare in centro. Poi è entrata in gioco un’altra specialità svedese, l’ingegneria sociale. Che consiste nel decidere cosa va fatto e nel farlo davvero. Scelsero quattro cose: costruire, in meno di 10 anni, a Malmö il ponte che oggi collega Svezia e Danimarca. Fondare una nuova università. Riportare in città i ricchi, affidandosi a grandi architetti. Soprattutto, fare di Malmö la città dell’immigrazione. Col 28% dei suoi abitanti nati all’estero, e con cento lingue parlate nelle sue scuole, la cittadina se la batte con New York. Il ruolo che fu della gru del porto oggi è di Zlatan Ibrahimović, il figlio di immigrati divenuto idolo del calcio.
Quando è venuto qui a giocare col Saint-Germain, ha pagato il maxi-schermo in piazza, affinché i locali potessero vederlo sconfiggere la loro squadra. Lo amano tanto che non se la sono presa. Oggi, secondo il «New York Times», Malmö è tra i migliori posti in cui vivere. In centro non ci sono più i pusher, bensì la successione di ristoranti a chilometro zero e negozi di design che segue le classi creative come le pestilenze gli eserciti. È la città dove i giovani sognano di trasferirsi. L’esempio citato per spiegare che essere buoni spesso conviene anche.
Quando i rifugiati premevano ai confini dell’Ungheria, la città era mobilitata. Tutti mi chiedevano sempre la stessa cosa. Perché gli altri non riescono a fare la cosa giusta? Perché non possono essere solo un pochino più simili a noi? Di sabato, a Malmö si va a fare la spesa a Möllan, il quartiere degli immigrati e degli accademici. La verdura è buona, la scelta ampia, il posto così esotico che si usa ancora il contante. Attraversando il centro, conto quanti espongono il cartello che dà il benvenuto ai rifugiati. A metà settembre sono 8 su 10, supermercati e tabacchini, barbieri e società di ingegneria civile. Quando la Merkel diventa un po’ svedese, la città è pronta. Davanti alla stazione compare un grande tendone bianco. Pronto ad accogliere i rifugiati che, ogni venti minuti, escono dai treni. Pochi giorni dopo, il tendone viene sostituito da container decorati con improbabili luci natalizie. Ad ottobre, la televisione fa vedere i primi (e unici) rifugiati trasferiti dall’Italia alla Svezia. Gli impassibili colleghi sono quasi commossi, la superpotenza umanitaria è alive and kicking. Io trovo un errore spedire degli eritrei a Lulea - dove non c’è luce per tutto l’inverno e ti puoi trovare in casa un alce – ma vengo zittito. Anche le superpotenze umanitarie hanno i loro tabù, e qui sono le sacre foreste del nord. I numeri continuano a crescere, veloci. Quanto in Italia (coi suoi 61 milioni di abitanti). La coda davanti ai container è sempre più lunga. Un dottorando aggiorna la sua stima del nuovo fabbisogno di classi scolastiche, di corsi di svedese, di alloggi d’emergenza. Il governo comincia ad attingere dai fondi per l’aiuto allo sviluppo: la superpotenza umanitaria ha cominciato a divorare sé stessa. Andando a Möllan, i cartelli sono sempre lì, ma sempre più scoloriti.
A novembre ascoltiamo il ministro, che poi è una ministra, annunciare un «temporaneo» cambiamento delle politiche. E il ritorno dei controlli di frontiera, che interrompe una pratica qui molto più antica di Schengen. Mentre parla, comincia a piangere, e non credo per aumentare la sua visibilità. Due giorni dopo, ritornando da Copenaghen, meno di venti minuti di treno, devo mostrare il passaporto. Non so se siano più tristi i poliziotti o i passeggeri. Sotto Natale, le luminarie sui container si spengono. Dopo capodanno, i container sono spariti. È così che le superpotenze umanitarie si estinguono, non con uno schianto, ma con un gemito.
Gli editorialisti di tutto il mondo gongolano. Gli idealisti svedesi hanno finalmente preso la legnata che si meritavano. La rassegna stampa mi ricorda quando, pessimo studente, vedevo il primo della classe sbagliare la versione. Qualche giorno fa, le nuove leggi sono entrate in vigore. Nel mio seminario documento come, nonostante tutto, esse restino le migliori d’Europa. Ma è come cercare di confortare la vedova a un funerale. Un’anziana insegnante di liceo che frequenta i nostri seminari mi chiede a bruciapelo cosa succederà ora che non sono più la superpotenza umanitaria. Mi trovo a rispondergli che la coazione a essere sempre i più buoni è paralizzante quanto quella, così diffusa in altri Paesi europei, a essere sempre i più cattivi. Liberati dal peso della superpotenza umanitaria, resta tutto lo spazio del possibile. 

Forse il prossimo libro di successo svedese sarà, per una volta, un romanzo d’avventura. Questo è l’unico punto che sembra suscitare nel pubblico un barlume di speranza.
(di Giuseppe Sciortino) 



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Sono andato, tornato, ripartito.

Sono andato, tornato, ripartito.
E così ora sono qui, in un’altra fase della Vita. Abito vicino al ponte Västerbron, a forma di arpa. E’ bellissimo. La mia gratitudine è a scoppio molto ritardato. Faccio in tempo a dimenticare gli atti, i nomi e i volti prima di aver capito quando dovessi ad ognuno.