Le storie di Mohammed, Dana, Safwan e Abod si intersecano sulla direttrice che dall’Italia porta a Stoccolma.
Lampedusa e Milano, per i profughi siriani in fuga dalla guerra, non sono che soste. Il punto di arrivo e il punto di partenza.
Quella in pullman è una delle tante rotte che decidono di intraprendere, il tracciato di una marcia ancora lunga e piena di insidie attraverso i confini sempre più impermeabili dell’Europa di Schengen. Il viaggio non può essere che a tappe. Tragitti brevi, nella speranza che la polizia di confine non salga a bordo. Le soffiate arrivano sui loro cellulari sempre connessi ad internet.
Nei centri d’accoglienza di Milano un tam tam di voci da chi è arrivato fino in Svezia aggiorna su quali passaggi sono più sicuri. L’Austria è off limits: controlli vagone per vagone, treno dopo treno. Ė così che ci si ritrova sulla tratta notturna dei pullman che collegano Milano Lampugnano a Parigi Bercy. Un lancio di dadi, perché se sale la polizia il viaggio finisce, e la Svezia resta solo un sogno. Il regolamento Dublino II parla chiaro: il Paese dell’Unione Europea dove lasci le impronte è il Paese dove devi fare richiesta d’asilo.
Per la gran parte dei profughi, che in Siria erano benestanti e appartenevano alle classi medio alte, l’Italia non è un’opzione preferibile. Un luogo malsicuro, dove il sistema d’accoglienza è al collasso e ha perciò poco da offrire a chi è costretto dalle bombe a pensare di rifarsi una vita lontano da casa. Per loro è chiaro che lasciare le impronte digitali qui significherebbe una permanenza infinita nei Cara (centri di accoglienza per richiedenti asilo ndr) e un labirinto burocratico nel quale veder svanire i risparmi assieme al proprio futuro.
La diaspora siriana si costella così di punti su una mappa. Di storie che raccontano dell’incapacità dell’Europa di rispondere unita ad un’emergenza in atto da ormai due anni. Molte sono storie di fantasmi che solcano l’anticamera delle istituzioni, bloccati nel limbo di burocrazie miopi, come il caso di Mohamed, profugo palestinese prima, e profugo siriano ora, scappato dalle bombe che il regime di Assad ha fatto piovere sui tetti del campo di Yarmouk a Damasco. Attende che la Francia lo inserisca nelle sue pratiche d’accoglienza mentre vede esaurirsi in una clessidra estenuante i giorni del suo visto turistico.
Il viaggio riprende verso Nord, le strade e i destini si dividono. Safwan, 37 anni commerciante di Hama, sale con la moglie e i due figli sul treno diretto a Liegi, in Belgio. Un altro confine, un altro tratto di penna sulla mappa. Il pullman dell’Eurolines, invece, macina chilometri lentamente. Ventisei ore per congiungere Parigi a Malmö. Chi sceglie questa strada fa i suoi conti con la fortuna, 1900 chilometri e quattro confini da superare. Per la strada altre voci si intessono agli esili fili che uniscono i punti della storia di questo viaggio.
Dana esce dalle porte dal centro d’accoglienza del Migrationsverket, l’ufficio immigrazione di Malmö. Ha 18 anni ed è arrivata fino in Svezia con la madre, il fratello e lo zio. Del suo viaggio ha ricordi confusi, le immagini e le persone della sua odissea si sovrappongono. Racconta dei barconi affollati, delle violenze subite a bordo dai passeggeri: «Arrivati in mezzo al mare, la prima cosa che ci hanno chiesto è stato di consegnar loro i nostri cellulari e tutti i soldi». Non ricorda quasi nulla della strada percorsa da Lampedusa fino a qui. Sa solo che ce l’ha fatta e che può ricominciare la sua vita. Vuole studiare ingegneria e ha le idee chiare, come chiare sono le azioni che la Svezia ha messo in atto per accogliere gli esuli siriani.
by:Germana Lavagna. |