“Supponiamo, perché assurdo, che io non sia mai esistito.
Supponiamo che fosse caduta troppa neve quella sera”.
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Supponiamo allo stesso
modo che il tempo sia una somma imperfetta di ricordi e cicatrici: un luogo
remoto dove il possibile non si avvera mai, e l'assurdo trova sempre una via
per manifestarsi. Il tempo attraverso il quale è passato un professore di
filosofia, in pensione dopo una vita spesa ad Oxford, è un tempo affollato:
camminano fianco a fianco, affacciandosi sul bordo della memoria, i vivi, i
morti, i sopravvissuti. Dal placido ritiro inglese il professore torna con la
forza della memoria alla nativa Svezia, al piccolo paese di Västerås, dove
ancora, come nel 1954, lo attendono le bianche braccia della signora Sorgedahl:
traguardo inaspettato, desiderato, la tanto attesa lezione su delizia e croce
dell'abbandono. Prima di raccontarla, però, ad un invisibile uditorio, il
vecchio professore gioca a scacchi con il passato (per la morte ci sarà un
altro, diverso tempo) snocciola citazioni e cammina all'indietro, gambero
d'acqua dolce: tutto per capire che cosa l'abbia fortuitamente portato
nell'abbraccio accogliente di una donna affascinante ed annoiata. Per capire,
in fondo, chi è stato, chi è ora. Rovistando nell'affollato, impolverato baule
del passato l'uomo trova i resti di una giovinezza trascorsa nel cono d'ombra
delle scoperte: bruciano, ieri come oggi, i baci dati alla figlia del
Fonditore, primo, acerbo amore; suonano sempre astrusi i racconti della madre
distratta; non sono terminate le discussioni di un improvvisato club filosofico
nel locale caldaia. Ogni attimo, ogni capitolo, testimoniano l'adolescenza
dell'anziano, indizi dell'adulto che sarebbe poi diventato. Fino alla prova
ultima, assaggio di piacere e passaggio obbligato verso la “terra dei grandi”:
“Mi sembrava come se realmente avessi ricevuto, alla fine, una risposta alla
domanda se esistevo”…
Le bianche braccia della signora Sorgedahl: ovvero la Svezia che (per
fortuna) non ti aspetti, lontana chilometri dai luoghi comuni sui “generi”.
Perché in questo romanzo di Lars Gustafsson, filosofo, matematico, tra i più
tradotti scrittori scandinavi, non c'è nessun cadavere a cui rendere giustizia,
nessun investigatore dalla tormentata vita affettiva: perfino l'imperitura neve
lascia il passo ad un'incredibile e memorabile grandinata estiva. Qui c'è solo
il silenzio, un costante ribollir di passioni sotto il gelo che tutto copre: un
velo sottile preserva dal caos un'idea di continua ricerca di sé, cerchio
magico che si costruisce e chiude intorno al protagonista. Le “bianche braccia”
del titolo sono dunque solo un pretesto: d'amore, certo, emozione violenta ed
irripetibile, ma pur sempre un escamotage grazie al quale il vecchio professore
si mette sulle tracce delle orme lasciate in anni di cammino, finanche i segni
delle cadute, delle deviazioni. Gustafsson ha posto dunque l'arte della
riflessione al centro di questo romanzo “proustiano”, intriso di scienza e
filosofia: è l'idea del tempo che lo affascina, il suo essere materia sfuggente
e concreta, quel susseguirsi di stagioni che, smontate e analizzate, permettono
al professore di rileggere il presente sotto una nuova luce. Il fluire degli
anni, mescolato alla corrente dello scibile umano, assume a volte i caratteri
del sogno, o della più assurda allucinazione: all'anziano intellettuale, come a
tutti noi, resta solo la possibilità di cogliere aspetti separati, momenti
isolati, esperienze sbiadite, istantanee malamente cucite insieme dal filo
rosso dell'“io” per definire i confini dell'identità. A metà strada tra
testamento letterario e memoir autobiografico,
Le bianche braccia della
signora Sorgedahl rifulge della perfetta bellezza delle cose perdute, senza
macchie, strappi: e si concede poco a poco, come una donna sensuale incerta se
obbedire ad un istinto per sempre giovane.
FoF